Leopoli, tra i disperati nella chiesa-rifugio. "Mamma, perché i russi ci sparano?"

Il reportage. Padre Grygoriy accoglie nella sua parrocchia le famiglie sfollate dalle città sotto attacco. Ecco le loro storie

Una ragazza stringe il cane nel centro di distribuzione dei rifugiati ucraini a Korczowa

Una ragazza stringe il cane nel centro di distribuzione dei rifugiati ucraini a Korczowa

La guerra è iniziata da 10 giorni. Sulla linea della storia è un tempo che non conta niente, nella linea della vita degli ucraini equivale a un secolo. "Siamo stanchi, i negoziati sono sospesi e riprenderanno dopo il weekend, come fossero un appuntamento dalla parrucchiera". Nadja una volta aveva due bellissimi occhi azzurri, ora ha solo occhiaie nere. "Non posso neppure piangere, non me lo posso permettere", e indica con lo sguardo i suoi due bambini distesi sul letto. La più piccola ha una grave disabilità. Dormono nella stanza che era del cappellano della chiesa Giovanni Paolo II, nel quartiere Sokilnyky di Leopoli, diventata una ricovero per i rifugiati provenienti da Kiev, Kharkiv, e da tanti altri paesini il cui nome non riesce a finire nelle cronache. Neppure stavolta.

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Questo luogo è un checkpoint di vite, segna il passaggio tra quello che era e quello che è. Quello che sarà è troppo lontano da misurare. "Risolviamo un problema alla volta", commenta padre Grygoriy, il carismatico direttore di questa nave di disperati che hanno trovato casa dopo giorni di viaggio. "Prima il cibo, poi il letto, i vestiti. C’è gente che è arrivata scalza perché, per fuggire in fretta dai bombardamenti, non ha fatto in tempo a indossare le scarpe". Cosa porteresti se dovessi scappare senza voltarti indietro? In questi giorni l’Occidente se lo domanda. La verità è che non sempre si può scegliere. "Poche ore dopo la dichiarazione di guerra una persona mi ha telefonato chiedendomi ospitalità. Venti minuti dopo le richieste sono diventate 6, poi 20 e così via da allora. Adesso ospitiamo circa 150 persone, in larga parte donne e bambini, anche con disabilità".

Ai casi più gravi o alle famiglie numerose è stata concessa una stanza privata, gli altri dormono su materassini sistemati in stanzoni comuni al piano terra. È già tutto pieno, a breve bisognerà allestire la chiesa, si dormirà sotto la croce, ai piedi dell’altare. Ma almeno al caldo e, forse, al riparo dalle bombe.

La maggior parte degli "ospiti" (la parola rifugiato porta con sé l’incubo di un tempo indeterminato) arriva qui senza alcuna esperienza di emergenza. Persone comuni che avevano una vita come tante, fatta di lavoro, divano, libri, una credenza con una tazza usata due volte all’anno, oggetti futili che definiscono tutti. Avevano perfino i calzini. Nella chiesa di Sokilnyky valgono più dell’ultimo smartphone.

Una volontaria li porge con amore a Kostantin, un ragazzo affetto da sindrome di Down che ha affrontato un lungo viaggio in treno da Mariupol, uno dei campi di battaglia più violenti.

"Siamo scappati durante i bombardamenti – racconta tra le lacrime sua madre, che prima della guerra era una sarta –. Siamo arrivati alla stazione ma i treni erano stracolmi, era impossibile salire a bordo. Abbiamo aspettato ore al freddo, schiacciati nella calca di persone disperate come noi. All’ennesimo rifiuto, mio figlio Kosta è scoppiato a piangere e, sai, nessuno resiste quando Kosta piange. Una capotreno ha aperto il portellone, ci ha detto di salire in fretta. È stato il nostro angelo. Siamo scesi a Leopoli, non conoscevamo nessuno ma ci hanno indicato questo posto". Non regge all’onda dei ricordi. Kosta le sorride e lei scoppia a piangere sommessamente. "Perché i russi ci fanno questo?".

Nella lettera di San Paolo ai Romani c’è scritto: "Se possibile, per quanto questo dipende da voi, vivete in pace con tutti". Padre Grygoriy si fa serio. "Appunto, se è possibile. Non mi sembra che sia così con i russi. Forse ci vorranno più di 50 anni per arrivare a una riconciliazione con gli ucraini. I bambini che ospitiamo ora saranno adulti, forse vecchi, quando potranno stringere di nuovo la mano di quelli che erano fratelli".

Padre Grygoriy non è pessimista, è realista. Ma ha sguardo lungo. Mentre ci parla, seduto su una poltrona della cucina collettiva aperta a tutti, notiamo che alle spalle ha una Bibbia con caratteri russi. "Voglio che sia lì perché qui dentro non deve esserci separazione. Se qualcuno dei nostri ospiti parla russo non deve essere forzato a parlare ucraino. Nessuno di noi ha il diritto di imporglielo. Riconciliazione, non divisione".