
La fuga di donne, anziani e bambini dalla città di Srebrenica durante la guerra
Srebrenica, 30 giugno 2025 – La ragazza si scusa. Quasi urla. Deve sovrastare i rumori del martello pneumatico e della smerigliatrice che provengono da fuori il magazzino dove è allestita la mostra temporanea che racconta la ‘marcia della morte’, quella di coloro che provarono a fuggire da Srebrenica quando le truppe del generale serbo Ratko Mladić entrarono in città nel 1995. A luglio saranno trent’anni da quella terribile settimana d’estate che provocò oltre 8mila morti civili. Tutti uomini musulmani. Molti solo adolescenti. “È un anniversario importante, tutto deve essere pronto per l’11 luglio quando ci sarà la commemorazione”, dice ancora la ragazza, scusandosi di nuovo. A lei tocca il compito di spiegare ai visitatori del Memorial Center Srebrenica che cosa è accaduto in quell’angolo di Bosnia Erzegovina, diventata teatro di un genocidio. Certo a ricordarlo ci sono anche i video, le testimonianze dei sopravvissuti, le scarpe – decine e spaiate – e gli oggetti, le foto, le mappe dei percorsi tentati nei boschi.
L’ex fabbrica di batterie
Il magazzino, in buona parte vuoto, è una piccola parte dell’ex gigantesca fabbrica di batterie diventata, durante la guerra, compound dei caschi blu dell’Onu. Sulle pareti di un altro edificio sono rimasti i graffiti, molti osceni e offensivi, di quei soldati. Erano incaricati di proteggere la popolazione disarmata, poi le cose sono andate diversamente: l’allora colonnello olandese Thom Karremans non si oppose a che gli uomini venissero separati dalle donne e, in seguito, negò di aver saputo che i primi stavano andando incontro a un eccidio. Il doloroso racconto che si dipana per quelle stanze si intreccia con quello di tante famiglie che ancora non hanno una tomba su cui piangere i propri cari. Sono infatti circa 6.700 le persone sepolte nei 30mila metri quadrati del cimitero-memoriale di Potocari, situato accanto all’ex compound. “In alcuni casi si tratta solo di poche ossa – spiega la giovane guida che prima si è scusata per il rumore –. Dare un nome a quanti sono stati ritrovati nelle fosse comuni non è stato facile. Una parte del cimitero è ancora vuoto: lì verranno sotterrati coloro di cui non avremo scoperto l’identità”.

Srebrenica oggi è una città svuotata
Dei circa 13.500 abitanti che sulla carta oggi risiedono a Srebrenica solo 3.500 ci vivono davvero. Per lo più si tratta di esuli, magari giunti da altre zone in questa che ora è parte della Republika Srpska (la Repubblica Serba di Bosnia ed Erzegovina). Molti sono serbi. Come Stana. “Quando sono arrivata qui, in inverno, alla fine della guerra, ho occupato una delle tante case vuote – racconta –. Solo dopo 10 anni ho scoperto chi fosse il proprietario, un bosgnacco (un bosniaco musulmano, ndr) che aveva un ristorante e che si era trasferito altrove. A quel punto, tramite un notaio, l’ho contattato e ci siamo letteralmente scambiati la casa”.
Il tentativo di convivenza pacifica
Stana è una della due fondatrici dell’associazione Sara, ong nata per favorire la convivenza pacifica tra le diverse nazionalità come era in passato. “Qui abbiamo una scuola unica, gli studenti sono di tutte le nazionalità”, spiega l’altra co-fondatrice Vanja. Anche lei è serba. E ci tiene a sottolineare che tra le attività di cui si occupano c’è quella di promuovere campi estivi all’insegna della cooperazione per ragazzi, “che arrivano da tutto il Paese”.
L’impegno dei volontari
Aiuti pubblici però non ne hanno. “Per questa stanza – la nostra sede – all’interno del centro culturale paghiamo un affitto di 70 euro al mese”, confida. Le donne dell’ong sono tutte volontarie e vanno avanti soprattutto grazie a donazioni di privati e progetti solidali. L’obiettivo è provare a fare la differenza, magari anche promuovendo per strada una campagna di sensibilizzazione per far conoscere ai cittadini i principali ostacoli al miglioramento del processo elettorale in Bosnia-Erzegovina. Fare la differenza, però, non è facile in questa realtà. “Prima del conflitto, Srebrenica era un centro multiculturale e fiorente. Vantava il Pil più alto di tutta la Jugoslavia, sia grazie alla fabbrica di batterie sia grazie alle terme – racconta Eric Gobetti, storico, scrittore e studioso dei Balcani –. Adesso... Be’, basta guardarla”.
La rinascita che non c’è
In effetti la città offre davvero poco. Non c’è nemmeno un albergo. “Chi vuole visitare il memoriale, va e viene in giornata. Capita anche a me quelle volte in cui mi chiedono di accompagnare scolaresche italiane”, prosegue. Ora la principale attività economica è l’agricoltura. “Anni fa un imprenditore francese ha provato a rilanciare il complesso termale – continua Gobetti, indicando un edificio giallognolo dai muri scrostati e senza finestre –. Non ce l’ha fatta. Alla fine il governo non gli ha dato i permessi. Non c’è interesse politico nei confronti di questo posto che riporta alla luce ricordi che molti vorrebbero fossero dimenticati. Se non addirittura cancellati”. L’odio dunque sembra essere ancora vivo. Eppure, ironia della sorte, in centro, la moschea e la chiesa ortodossa distano tra loro solo poche centinaia di metri, a ricordo di un passato di pacifica convivenza.