"Tornerò a correre nel deserto". La sfida del maratoneta senza gambe

Protesi hi-tech per l’atleta che ha perso gli arti in una gara in Canada

Roberto Zanda (Ansa)

Roberto Zanda (Ansa)

Torino, 16 giugno 2018 - Si guarda allo specchio e sorride: "Assomiglio a un robot". La mano destra amputata all’altezza dell’avambraccio è una protesi bionica in titanio. Quella sinistra è diventata una specie di pinza, dopo l’asportazione delle dita necrotiche. Al posto dei piedi ha la migliore tecnologia sul mercato, carbonio superleggero a recupero di energia sui monconi rimodellati chirurgicamente. Con cautela percorre i corridoi dell’unità di riabilitazione intensiva del Don Gnocchi di Torino. Dopo 4 mesi, 12 operazioni e indescrivibili sofferenze, ‘Massiccione’ è tornato. La notte del 6 febbraio, al sesto giorno della Yukon Arctic Ultra, la più estrema ultramaratona al mondo, l’ex paracadutista cagliaritano Roberto Zanda, 60 anni, si è smarrito nel sogno allucinato dell’ipotermia. Ha vagato in una foresta per 14 ore a meno 50 gradi senza scarpe e senza guanti. Ha lasciato pezzi di sé fra il Canada e l’Alaska. Ma è un uomo felice. "Sono nato per la seconda volta fra i lupi e gli orsi. La mia nuova vita è incominciata dentro un bosco ghiacciato dove vedevo e parlavo con persone inesistenti. Adesso sono come un bambino piccolo. Devo imparare a camminare, a maneggiare le cose. Ma sto dritto sulle mie gambe. E sono vivo".

Sapeva che sarebbe finita così.

"Che avrei portato a casa la pelle? Sì. Ho fatto un patto con Dio. Prenditi i piedi e le mani, ma lasciami la vita. Mi mancavano 180 chilometri e speravo di farcela. Eravamo rimasti in tre, sparpagliati nel raggio di 20 miglia. Andavo piano, stavo attento. A un certo punto non ho più visto i paletti che segnalavano la pista e sono andato a cercarli lasciando la slitta. Mi è sembrato di vedere una casa e ci sono corso incontro. Era la foresta, che mi ha inghiottito come nelle favole. Mi sono perso in mezzo agli alberi".

Perché scalzo?

"Guanti e scarpe erano pieni di neve, dovevo svuotarli. Solo che poi non sono più riuscito a infilarli. Avevo solo due possibilità: o morire lì o mettermi a camminare e vivere. Quella notte tutto addosso a me era ghiaccio. Il giaccone, la barba. Vedevo gente nel bosco. Chiedevo a tutti di chiamare l’ambulanza. Gridavo mamma. Ogni quattro passi sbattevo contro una pianta e dovevo stare attento a non sfiorare i tronchi con le mani perché nell’urto, congelate com’erano, si sarebbero staccate. Succhiavo la neve attaccata agli alberi. All’alba ho visto diradarsi la foresta. C’era un fiume, ghiacciato anche quello. Scivolavo, arrancavo sui gomiti come un gatto. È finita, mi dicevo. E mi sono rivolto a Dio. Dopo 45 minuti ho visto una motoslitta. L’uomo che stava sopra si è voltato, poi ha girato la testa dall’altra parte. Forse pensava anche lui di avere le allucinazioni".

E finalmente l’elicottero, il viaggio all’ospedale di Whitehorse. Poi il rientro in Italia e le amputazioni.

"Sono rimasto 5 mesi in ospedale e ho avuto 12 operazioni. Poco tempo per annoiarmi. Dovevo resistere ai dolori terribili, volevo alzarmi da quel dannato letto. Sono scampato a una peritonite fulminante in solitaria nel deserto egiziano. E a un’infanzia cancellata dal fatto di essere quarto di nove figli. Mi hanno messo in collegio, a 15 anni lavoravo. Conosco la sofferenza. Aiuta a vivere meglio perché ridimensiona i problemi. Mi sono fatto 900 chilometri da un versante all’altro dei Pirenei con i piedi letteralmente bucati. Andrà bene anche questa volta, mi dicevo. Nessun rimpianto, rifarei tutto".

Qualcosa però è cambiato.

"Dice che dovrei starmene tranquillo a casa? Il 25 giugno torno a Cagliari, mi sistemo, vado in palestra a fare stretching e poi mi rimetto a correre fra le dune. Prossimo traguardo l’ultramaratona in Namibia, 250 km in sei tappe. Senza i miei piedi. E se gli organizzatori non mi accettano dovranno cambiare il regolamento. Ho tanti amici disabili e li ammiro moltissimo. Ma io ho solo un paio di protesi, c’è chi ci va a ballare. All’inizio chiederò a qualcuno di accompagnarmi, sempre che riesca a starmi dietro".

Sua moglie magari?

"Giovanna è formidabile. Il mio bastone, la mia testa, il mio cuore. Si è fatta con me i 150 chilometri a 52 gradi dell’ultramaratona in Iran, dove tutti chiedevano la flebo. Sono arrivato al traguardo un po’ prima e sono tornato indietro a incoraggiarla in costume e infradito. Io applaudivo e lei piangeva, voleva ripararsi dal sole con il sacco a pelo".