Il cimelio nazista che imbarazza l’Uruguay

Va all’asta la polena con aquila e svastica della corazzata autoaffondata nel Río de la Plata. C’è un acquirente (che vorrebbe distruggerla)

La polena della Admiral Graf Spee recuperata nel 2006 nel Rio de la Pla

La polena della Admiral Graf Spee recuperata nel 2006 nel Rio de la Pla

Non temeva le corazzate, perché era più veloce, e non temeva gli incrociatori perché era più potente: questa, in sintesi, l’eccezionalità della “corazzata tascabile” tedesca Admiral Graf Spee, varata nel 1934 dopo essere stata costruita con accorgimenti all’avanguardia per rimanere sotto il tonnellaggio imposto dai trattati di Versailles. Un gioiello di ingegneria navale: “leggera”, veloce, ma affollata di cannoni di grosso calibro (280 e 150 millimetri), persino dotata di radar, un’invenzione che i tedeschi vollero condividere troppo tardi, nel ’42, con l’alleato italiano. Era comandata dal pluridecorato capitano di vascello Hans Langsdorff e aveva il compito di assalire, come una nave corsara, i mercantili alleati. A poppa, la Spee era adornata da una grossa aquila di bronzo, ovviamente poggiata sulla classica ghirlanda con la svastica. Nel febbraio 2006, tale “polena” venne recuperata dal relitto nell’estuario di fronte a Montevideo in Uruguay sia come trofeo, che come testimonianza di un evento storico: la Battaglia di Río de la Plata, il primo scontro fra la Royal Navy e la Kriegsmarine nella Seconda guerra mondiale. La corazzata tedesca era, infatti, salpata il 21 agosto 1939 dal porto di Wilhelmshaven, e, come nave corsara nell’Atlantico depredò e affondò – senza vittime – nove mercantili. Il 13 dicembre venne avvistata da tre incrociatori della Royal Navy, i quali, dopo un breve scontro a fuoco, la costrinsero a rifugiarsi nel porto neutrale di Montevideo il 14 dicembre. Dopo 72 ore, il governo uruguaiano obbligò la Spee a ripartire e il comandante Landgraf decise per l’autoaffondamento la sera del 17 dicembre nell’estuario del Río de la Plata. L’ufficiale si sarebbe suicidato, sparandosi, dopo due giorni in un albergo di Buenos Aires, non prima di essersi avvolto nella bandiera della marina imperiale tedesca. Dopo anni di diatribe legali, in dicembre la Corte d’appello uruguayana ha ordinato che l’aquila venga messa all’asta, anche per ripagare i sommozzatori che avevano recuperato questa e altre parti del relitto, fra cui il famoso telemetro. Il processo era stato sospeso a causa del timore che il cimelio di 400 chilogrammi potesse essere acquistato da simpatizzanti del Terzo Reich, anche se non è proprio a buon mercato: nel 2020 era stata quotata per 26 milioni di dollari. Nonostante il valore, rischia però di fare una brutta fine: un appassionato di nautica argentino, Daniel Sielecky, ha dichiarato di volerla acquistare, ma… per farla esplodere, polverizzando anche i più piccoli pezzi in modo che non ne resti nulla. C’è però da osservare che il cimelio appartiene alla storia militare; in quanto polena di una nave da guerra, non è un oggetto di propaganda politica. Sarebbe come ripescare un famoso aereo dell’Aeroflot sovietica e poi distruggerne il timone perché reca falce e martello alati, simbolo di un’ideologia colpevole di 60 milioni di morti: nel bene o nel male, questi oggetti fanno parte della storia. Inoltre, una tale iniziativa sortirebbe facilmente l’effetto contrario, ovvero quello di contribuire a circondare di un irresistibile “fascino del proibito” tali cimeli che, sul mercato collezionistico hanno, già da decenni, prezzi alle stelle. Piuttosto, dato che l’aquila è esattamente il simbolo di una sconfitta militare della marina del Terzo Reich, semmai la Royal Navy dovrebbe fare un’offerta per acquistarla ed esporla in uno dei suoi musei anche se la corazzata non fu direttamente affondata dai britannici. Una cosa è certa: l’iconoclastia non viene mai ricordata con favore dai posteri.