Kabul, quei soldati che coccolano i bimbi. Sotto la divisa vince l’umanità

L’Occidente fugge, l’America è nel mirino, ma le foto dei militari che aiutano i più piccoli restituiscono calore e speranza

Un soldato della Nato con un neonato afghano

Un soldato della Nato con un neonato afghano

Berlino, 22 agosto 2021 - Sono foto e sequenze crudeli, disperate, quelle che ci giungono dall’Afghanistan. Uomini e donne in fuga per la vita. Siamo tutti colpevoli, come si legge? No, in questi giorni tragici la retorica è insopportabile. È colpevole chi aveva il tempo di salvarli e non è intervenuto, ora per alcuni sarà troppo tardi. Però chi guarda un’immagine o un filmato non rimane neutrale. Si commuove e si adira, si sente coinvolto. Non siamo semplici testimoni. I sentimenti non sono coerenti. Non siamo colpevoli, ma proviamo rimorso. Giungono anche foto di soldati con bambini. Alcune spontanee, sono istantanee fuori fuoco che è quasi sempre prova di autenticità. Si capisce l’intento, mentre il mondo mette sotto accusa gli americani, si mostra un lato umano. Non basta per assolvere, ma alla propaganda sfugge per fortuna il controllo. Non sono artificiose, nonostante l’intenzione.

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La foto del bambino che al di sopra del filo spinato è offerto al soldato al di là della barriera entrerà nella storia, come l’immagine della bambina nuda ustionata dal napalm in Vietnam. Lei si salvò, come il neonato di Kabul. Era malato, disse il padre nell’affidarlo al giovane in uniforme. Secondo Al Jazeera, il portavoce del Pentagono John Kerry riferisce che il militare ha portato il piccolo all’ospedale norvegese all’interno dell’aeroporto. È stato curato e infine restituito al padre e alla madre. Non ci sono altri particolari, possiamo sperare che la famiglia sia potuta infine partire. Una storia simbolo con lieto fine in una tragedia. Vengono diffuse altre foto: un militare inginocchiato innanzi a una bambina, altri militari in una divisa simile a una corazza che cullano un neonato. Sono in posa, ma nelle immagini in cui si vede il volto, i soldati sono commossi, sinceri. Non sono attori che possano fingere, non fino a questo punto. Ricordiamo altre foto in bianco e nero. Ancora militari circondati da bambini coperti di stracci e a piedi scalzi, sono gli sciuscià di Napoli, foto scattate per strada o fotogrammi del film di Vittorio De Sica, un film verità, neorealista, girato nel 1946. I bambini assediavano gli invasori, o i liberatori, implorando una sola sigaretta da rivendere al mercato nero. Anche il nomignolo, sciuscià, è un regalo degli stranieri, da shoe-shine, sciuscian nella sonora traduzione napoletana, lustrascarpe. Un paio di stivali lucidi valeva un pranzo e una cena per la famiglia. Gli occhi di Sciuscia, il protagonista, sono felici e feroci. Era il quindicenne Franco Interlenghi.

Non dovrei parlare di me, ma questi sono anche i miei ricordi della prima infanzia. Avevo tre anni nel luglio del ’43, una donna aprì le persiane verdi della villa in Sicilia dove ero sfollato, mio padre si trovava in guerra. E vidi tra gli olivi le tende, e i primi uomini dalla pelle nera. Per andare al mare, con mia madre, attraversammo i binari della ferrovia, saranno passati forse due treni al giorno. Un soldato americano mi lanciò una caramella, di quelle trasparenti, che andò in frantumi sul marciapiede. Mi chiamò e mi riempì le mani con altre caramelle. Non ho mai dimenticato le sue pupille grandi e bianchissime su un volto nero.

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Non ero un bambino affamato, come i miei coetanei napoletani, ero un privilegiato, ma quell’uomo sorridente in divisa per me significò sicurezza e protezione. E molte caramelle, dai colori vididi e un gusto mai provato. Il colore della pelle non mi sorprese, ero pronto ad accettare come normale ogni sorpresa. Per lui, per il mio soldato alla stazione in quella estate in Sicilia, sono convinto che i giovani americani in divisa a Kabul con i bambini afgani tra le braccia siano sinceri.

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