Lo strazio degli afghani che restano. "Noi, disperati e nascosti come topi"

Il dramma di uno studente che lavorò per l’Italia: è scappato da Herat ma non riuscirà a partire con la famiglia

Una rifugiata afghana fugge dal Paese finito in mano ai talebani (Ansa)

Una rifugiata afghana fugge dal Paese finito in mano ai talebani (Ansa)

L’ultimo aereo C130J dell’aeronautica militare carico di persone tra cui l’Ambasciatore Claudio Pontecorvo e il console Tommaso Claudi, diversi carabinieri del Tuscania e alcuni civili italiani e afghani è rientrato in patria ieri notte e, per ora, i voli umanitari sono sospesi. A Kabul e Herat restano decine di lavoratori che per anni hanno prestato servizio nelle basi italiane di Camp Arena, Camp Invicta, Bala Morghab, Shindand, Ice e Snow, solo per citarne alcune. Per loro sono i giorni della paura, l’avere collaborato con le Forze Armate italiane li mette in pericolo di vita.

"Sono senza parole – spiega al telefono dall’Afghanistan Arash, 24 anni, studente all’ultimo anno di economia, figlio di un addetto alle pulizie nella mensa di una delle basi italiane, per 15 anni al servizio della nostra nazione e fratello di un interprete che fortunatamente è stato accolto in Italia alcuni anni, quando è terminata la missione Isaf –. La mia famiglia è stata a servizio per anni. Ci sentiamo abbandonati. La risposta delle forze armate di tutte le nazioni ancora presenti in Afghanistan al pericolo rappresentato dai talebani è stata troppo debole. Prima hanno tanto lavorato per la pace, poi, dopo le decisioni degli americani, più nulla. Di certo non è stato tenuto molto conto dell’accoglienza e dell’amicizia che abbiamo offerto lavorando per le varie nazioni e la mia famiglia, in particolare, per l’Italia. Ora siamo costretti a nasconderci come topi".

Arash era a poca distanza da dove giovedì un kamikaze si è fatto esplodere. Lui, il padre, la madre, la sorella e il cognato si sono salvati solo per caso. "Abbiamo visto tutto – racconta – a un certo punto il canale che divide l’aeroporto dalla strada si è tinto di rosso. Non ho mai avuto così paura. Siamo tutti sotto choc. Ci trovavamo in aeroporto per entrare nella struttura. L’ambasciata italiana ci ha contattato per inserirci nei voli partiti nei giorni scorsi. Ci hanno detto di arrivare autonomamente all’aeroporto. Siamo andati più volte senza riuscire ad avvicinarci. Lo abbiamo sempre fatto col cuore in gola nella speranza di arrivare alla salvezza. Non ce l’abbiamo con gli Italiani e l’Italia, sia chiaro, ma non avrebbe dovuto andare così".

Oltre a vivere il trauma degli attentati Arash e la sua famiglia sono stati aggrediti e malmenati dai talebani. Il padre è stato colpito con un bastone flessibile e anche la madre ha dovuto ricevere cure ospedaliere. Ora la famiglia, che a Kabul è arrivata dopo due giorni di autobus su strade sconnesse e polverose, è nascosta in un luogo segreto. "La nostra speranza di poter venire in Italia è ancora forte – conclude il ragazzo – però in questo momento non ci sentiamo sicuri a Kabul. È troppo pericoloso. La situazione sta peggiorando, visti gli attentati. Oggi piangiamo un centinaio di persone, ma altre soffriranno. Affronteremo il viaggio di ritorno verso Herat, ancora una volta su mezzi stipati di persone spaesate e terrorizzate. Una volta a casa dovremo continuare a vivere nascosti per non farci uccidere. In seguito penseremo al da farsi. L’importante, ora è sopravvivere tutti quanti. Intanto continuiamo a chiedere aiuto a quella che consideriamo la nostra seconda nazione: l’Italia".