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Leopoli, 16 marzo 2022 - Leopoli, a circa 90 km dal confine con la Polonia, rappresenta l’ultimo baluardo dove arroccarsi per la resistenza ucraina. È qui che oggi si raccoglie la maggior parte dei profughi in fuga dalle città bombardate del Centro e dell’Est del Paese. È qui che arrivano e vengono distribuiti gli aiuti umanitari provenienti da tutta Europa.
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In queste settimane le stazioni dei treni e dei pullman sono diventate il centro pulsante della città e il teatro di tante separazioni. Tantissime donne e bambini arrivano qui per lasciare il Paese. Vengono da Kiev, Karshiv, Lugansk, Odessa. Hanno vissuto in prima persona i bombardamenti russi ed hanno affrontato viaggi lunghissimi in condizioni precarie. Alcuni nuclei familiari partono per raggiungere qualche amico o parente nell’Unione Europea, altri partono senza sapere dove andare. La priorità è semplicemente mettersi al sicuro.
Gli uomini, invece, restano in patria. L’ordine di mobilitazione generale vieta ai maschi di età compresa tra i 18 e i 60 di lasciare il Paese. Ecco, la guerra fa anche questo: allenta le relazioni e crea strappi dolorosi. Bambini che salutano i padri piangendo. Fidanzati che si baciano con l’intensità dell’ultima volta. Anziani che procedono a fatica verso i binari, sfiniti. Tante storie di vite modellate dalla guerra e sulla guerra.
Ci sono poi molte persone che preferiscono trattenersi a Leopoli, temporeggiare prima di decidere se lasciare definitivamente il proprio Paese. Le proprie case e i propri affetti. La popolazione della città ha messo in moto in pochissimo tempo una macchina di sostegno e aiuto ai profughi. Le persone si sono reinventate. Le scuole e gli stadi sono diventate centri di accoglienza. Ho visitato una scuola nella periferia Sud e ho ascoltato tante storie diverse.
Svetlana, 60 anni, mi ha raccontato di arrivare da Irpin, città fortemente colpita dall’esercito russo. Si è nascosta per dodici giorni in uno scantinato prima di riuscire a fuggire e arrivare a Leopoli. "Avevo i carri armati russi in giardino e quando uscivamo per cercare l’acqua i russi ci sparavano addosso", mi dice aprendo disperatamente le braccia più volte.
Poi ci sono Julia e Veronika, una mamma con la sua bambina che vengono da Lugansk. Mi raccontano che nel 2014 – all’inizio della guerra nel Dombass – hanno dovuto abbandonare la loro casa e si sono trasferite a Kiev. Hanno ristrutturato una nuova casa nella capitale, ma adesso non sanno nemmeno se è ancora in piedi. Mentre Julia mi rivela la loro storia, la figlia scoppia in lacrime e la abbraccia. L’ennesima storia di strappi.
Nei giorni scorsi la cattedrale di Leopoli ha ospitato i funerali di alcuni soldati ucraini morti al fronte. Ho visto la dignità composta del dolore delle madri e negli sguardi dei compagni che reggevano le foto dei caduti. Eroi moderni di un’anacronistica civiltà dell’onore. Durante i funerali risuona per un attimo la sirena antiaerea. Nessuno si muove. Sembra quasi una beffa del destino.
Negli ultimi giorni gli allarmi anti-aerei hanno suonato più volte a Leopoli. Per fortuna la città non è stata mai colpita. Gli abitanti stanno imparando a convivere con il suono cupo e terrificante della paura. Correre in fretta nel cuore della notte nei rifugi sotterranei. E poi uscire fuori e provare, nonostante tutto, a vivere giorno dopo giorno una specie di strana quotidianità.
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