Iran, due attiviste gay condannate a morte: "Salvate quelle ragazze"

La mobilitazione internazionale contro la decisione di Teheran. È il primo processo contro le donne per il loro orientamento sessuale

Zahra Sediqi Hamedani, alias Sareh, 31 anni, una delle attiviste condannate a morte

Zahra Sediqi Hamedani, alias Sareh, 31 anni, una delle attiviste condannate a morte

Roma, 6 settembre 2022 - L’Iran condanna a morte le attiviste Lgbtqi Zahra Sedighi Hamedani, 31 anni, ed Elham Chubdar, 24 anni. A raccontarlo al mondo è l’organizzazione curda per i diritti umani Hengaw. Applicando la legge coranica, la Corte rivoluzionaria di Urmia – sul lago omonimo dell’Iran nord occidentale, non lontano dai confini con Azerbaigian e Armenia – reputa le due donne colpevoli di "corruzione sulla Terra" e le incolonna verso il patibolo (salvo revisioni).

Un’abnormità anche per un paese teocratico come l’Iran, dove mai prima d’oggi una sentenza simile era stata pubblicata. "È la prima volta che una donna viene condannata a morte in Iran a causa del suo orientamento sessuale" (ndr, propagandato), conferma Shadi Amin, coordinatrice dell’ong tedesca 6Rang per la difesa dei diritti Lgbtqi in Iran, invocando l’attenzione di media e governi.

Subito scatta la mobilitazione internazionale, mentre affiorano i dettagli. Tutto comincia da un’intervista a Bbc Persia di Zahra Sedighi Hamedani, detta Sareh, nel maggio 2021, sulla repressione del mondo Lgbtqi nel Kurdistan iracheno, frontiera porosa con l’ingombrante vicino. Fermata dalla polizia a Erbil, Sareh resta 28 giorni in carcere. Al rilascio, va in Iran. Qui tenta la fuga in Turchia, ma è arrestata il 27 ottobre 2021 dalle Guardie rivoluzionarie con l’accusa di "promuovere l’omosessualità, la comunicazione con canali anti-islamici e la cristianità" (si fa riprendere in foto o sui social indossando la croce). Sparisce per 58 giorni, subendo "abusi, bastonature, scariche elettriche e interrogatori sulla sua sessualità: torture", riassume Amnesty International. Per farle più male, le tolgono anche i due figli. Due mesi di isolamento, poi il processo, con garanzie di difesa nulle se comparate alle accuse.

Ciò nonostante, la sentenza di Urmia stupisce per violenza e tempistica: perché realizza un ulteriore giro di vite del meccanismo repressivo del regime di Teheran e perché esplicita una piena adesione giudiziaria al contesto politico ultra conservatore generato dalla presidenza Raisi. Lo svela il particolare accanimento nei confronti delle minoranze sociali ed etniche: queste ultime (curdi e non solo) ormai destinatarie del 20% delle condanne nonostante rappresentino il 6% della popolazione.