Giovedì 18 Aprile 2024

Il bar delle donne sfregiate dall’acido. "Qui ritroviamo il sorriso insieme"

Reportage da Agra, India: una Ong aiuta le vittime a reinserirsi

 Ritu davanti allo specchio (Foto di Federico Borella)

Ritu davanti allo specchio (Foto di Federico Borella)

AGRA (India), 4 novembre 2015 - «LA MIA FACCIA è ok, va bene così com’è». Dolly, 15 anni, sorride mentre mostra la sua foto di tre anni prima, quando ancora il viso era integro, senza le cicatrici deturpanti provocate dall’acido solforico. Oggi, nonostante la giovane età, è già una delle attiviste più impegnate nella battaglia contro gli attacchi con l’acido. La sua base è lo Sheroes Hangout Café di Agra, città indiana che il mondo conosce per il marmoreo mausoleo Taj Mahal, eterno simbolo dell’amore di un imperatore moghul per la propria moglie. Ma c’è un altro tipo d’amore nel Paese dei colori, quello che porta un uomo a reagire a un rifiuto gettando l’acido corrosivo sul viso del suo oggetto di desiderio.

NEL 2015 I CASI di aggressione registrati sono stati 315 in tutta l’India, ma è solo la punta dell’iceberg: poche donne trovano il coraggio di venire allo scoperto, finendo così dietro un velo di vergogna per il resto della vita. Dolly aveva 12 anni quando un ragazzo che aveva il doppio della sua età ha deciso di punirla per quel no di troppo.

Ma la sua vita, Dolly, se l’è ripresa indietro, pezzo dopo pezzo, operazione dopo operazione, fino ad arrivare allo Sheroes Hangout Café (un nome frutto della crasi tra le parole She e Heroes), fondato da Stop acid attack, una Ong. Qui le sopravvissute trovano la loro seconda chance. «E anche una seconda famiglia», spiega mentre serve ai tavoli del Café.

GRAZIE AL SUPPORTO di un’altra attivista più matura Dolly si è tolta quel velo che portava ormai da più di un anno. «Prima mi coprivo, durante il processo, ma ora no». Adesso insegue il suo sogno che ha il ritmo di Bollywood: «Io amo danzare, è quello che voglio fare». Il suo assalitore, intanto, è in carcere condannato all’ergastolo. E lei non ha nessuna voglia di rivederlo, «perché non ho niente da chiedere a chi ha l’anima già morta». Accanto a Dolly, come a farle da sorelle maggiori, ci sono Rupa e Ritu, altre due donne sfregiate dall’acito, ventitre e vent’anni rispettivamente.

RUPA DA PICCOLA guardava la zia disegnare e sognava di diventare una stilista. Grazie ai volontari di Sheroes Hangout oggi lei ha un suo atelier, poco distante dal bar. In questo spazio la ragazza realizza i suoi capi d’abbigliamento, partendo dalla scelta dei tessuti fino alla cucitura dei suoi pezzi unici. Sono in vendita anch’essi nel Café di Agra e l’etichetta è il simulacro della sua rivincita: Rupa’s collection. La sua è una storia anomala nel tragico panorama degli attacchi acidi, perché a sfigurarla non è stata un uomo.

LA MADRE naturale è morta quando Rupa aveva solo 3 anni e il padre si è risposato. «Tutti gli amici di famiglia mi dicevano quanto somigliassi a mia madre – racconta la donna – ma la mia matrigna non lo poteva sopportare». Consumata dalla gelosia, la seconda moglie decide di cancellare dal viso di Rupa il ricordo della sua rivale. A soccorrerla e accudirla è stato lo zio, mentre il padre prendeva le difese della sua seconda moglie. Ora Rupa è diventata il simbolo della rinascita, assieme alle amiche dello Sheroes Hangout. Una mano tesa verso quei visi nascosti dietro il velo.