Roma, 30 ottobre 2023 – Il look tutto nero di Benjamin Netanyahu nel messaggio tv agli israeliani fa parecchio rumore. "Perché stupirsi? I politici delle democrazie si devono sempre sintonizzare sui sentimenti dell’elettorato. Un’esigenza che gli uomini forti dei regimi illiberali di sicuro non hanno". Massimiliano Panarari, 51 anni, docente di Sociologia della comunicazione all’Università Mercatorum di Roma, spiega perché il guardaroba del potere è naturalmente mimetico.

Cosa significa il total black scelto dal premier israeliano?
"È lo specchio del tempo cupo del Paese, della profondità del suo dolore: la certificazione dell’ora più buia. Al tempo stesso, la scelta del nero vuole trasmettere un’idea di forza, rilanciando l’immagine del presidente israeliano come appartenente all’élite degli apparati di sicurezza: ombre nella notte. Come il Sayeret Matkal, l’unità antiterrorismo servita in gioventù".
È un messaggio anche ad Hamas i cui leader militari sono invece condannati all’invisibilità?
"Questo è un dato evidente. Ma Netanyahu, che è sempre stato molto attento alla comunicazione politica, intende soprattutto parlare agli israeliani, riunificandoli, e convincendo quella parte di elettorato che non lo amava, o – peggio – che lo detestava, a rinviare la resa dei conti nel superiore interesse nazionale".
Il verde oliva del presidente ucraino Volodymyr Zelensky risponde alla stessa logica di mobilitazione?
"Il messaggio di Zelensky che indossa l’uniforme militare dall’inizio del conflitto – e persino in Vaticano si è presentato così – da un lato proietta sistematicamente l’immagine del resistente, utile nelle sedi internazionali, dall’altro ribadisce ogni giorno al popolo ucraino chi detiene il ruolo di comandante supremo".
Il fascino della divisa è ancora seduttivo?
"Quella che vediamo oggi, al tempo dei media e dei social media, è null’altro che la rivisitazione in chiave post moderna di un modello comunicativo nato con la Prima guerra mondiale. Quando re e generali in divisa intendevano trasmettere al popolo un’idea di potenza e dominanza, ma dovevano cominciare anche a prestare attenzione alle prime reazioni dell’opinione pubblica".
Invece i dittatori oggi preferiscono abiti di pregiata sartoria. E non scordano mai la cravatta.
"Il presidente cinese Xi Jinping veste come il presidente di una multinazionale. E quello russo Vladimir Putin, che prima dell’invasione ucraina si esibiva in pose da macho, tipo nuotate siberiane o combattimenti di judo, ora si accredita con outfit da statista. Del resto, se è in corso null’altro che "un’operazione speciale", è normale che lo zar arringhi i connazionali allo stadio indossando un parka griffato da 13mila euro. Il look completa la narrazione".
Anche il presidente egiziano Abdel Fattah al-Sisi è un generale golpista in abiti civili.
"Il perfetto esemplare della nomenklatura del Cairo, dove la difesa amministra grandi conglomerate dell’economia e le sliding doors tra forze armate e società sono sempre ben oliate".
E il presidente turco Recep Tayyip Erdogan?
"Ambiguo anche nel guardaroba. Qui siamo di fronte a un travestimento doppio. Quello del fratello musulmano, con animo da pascià, che in grisaglia occidentale attacca le fondamenta laiche dello Stato mentre prova a ritagliarsi un ruolo in ogni crisi, da Tripoli a Odessa e ora anche a Gaza".
Il comune denominatore?
"Nelle democrazie in crisi i travestimenti dei leader – inclusi i giacconi militari indossati da Matteo Renzi o Giorgia Meloni durante le visite ai contingenti esteri, o le divise da Protezione civile di certi governatori quando c’è un’emergenza provocata da terremoti o alluvioni – parlano quasi esclusivamente all’elettore interno che va alle urne (e prima va blandito nei sondaggi). Invece, nei regimi dove il posto a palazzo è già garantito, uomini forti e dittatori demilitarizzano il proprio aspetto per offrire all’opinione pubblica internazionale un’immagine rassicurante. L’obiettivo è questo".