Mercoledì 24 Aprile 2024

Il Nagorno-Karabakh vuole esistere: «Costruiremo la nostra repubblica»

Il presidente Bako Sahakyan guida i sopravvissuti al genocidio armeno

Il direttore de Il Giorno Giancarlo Mazzuca con il presidente del Nagorno-Karabakh

Il direttore de Il Giorno Giancarlo Mazzuca con il presidente del Nagorno-Karabakh

Milano, 8 dicembre 2014 - BAKO SAHAKYAN, politico armeno, è dal 2007 presidente del Nagorno-Karabakh impegnato per il riconoscimento di questo Stato.

Presidente, quale l’effetto del gas e petrolio azero nei negoziati di pace?

«Il petrolio ha avuto sempre un ruolo condizionante nella geo-politica anche nel caso dell’Azerbaigian, ma c’è un aspetto da sottolineare: più l’Azerbaigian esporta idrocarburi, più si irrigidisce la disponibilità negoziale. Vi è una costante parallela fra i contratti di esportazione di idrocarburi e la mancanza di volontà azera di accettare i compromessi necessari proposti dai negoziatori per risolvere il conflitto con strumenti esclusivamente pacifici. Il primo segnale risale al 1997, quando dopo aver siglato i primi progetti petroliferi, l’Azerbaigian si rifiutò di negoziare con noi. E questo parallelo continua».

Perché?

«A causa dei maggiori introiti petroliferi, negli ultimi dieci anni le spese militari azere sono aumentate del 2.500%. Ma io penso che petrolio e spese militari sono nulla quando si combatte una battaglia di liberazione e di salvaguardia dei diritti fondamentali dell’uomo. D’altronde, con le risorse generate dall’esportazione di idrocarburi il governo azero avrebbe un’ottima occasione per sviluppare politiche sociali, essere progressista, anziché trasformarsi in uno dei più liberticidi regimi sul continente Euroasiatico, che reprimendo le voci libere della stampa promuove una bellicosa retorica propagandistica anti-armena».

Perché l’Onu e le organizzazioni internazionali fanno così poco?

«È vero, potrebbero fare di più. C’è da dire che da più di due decenni è in corso una campagna azera tesa a isolare il Nagorno-Karabakh, a sottrarlo all’attenzione delle organizzazioni internazionali. Certo, questa è una continuazione di quelle gravi lesioni dei diritti umani a cui eravamo soggetti in Urss quando eravamo costretti ai soprusi dell’Azerbaigian. Ogni passo in questa direzione dell’Azerbaigian da un lato dimostra al mondo intero le nostre ragioni di ribellione e dall’altro rafforza la nostra determinazione a camminare con passi saldi nella costruzione della nostra repubblica. Per ciò che concerne la comunità internazionale, siamo purtroppo testimoni di doppi standard nel riconoscimento dell’esercizio del principio di autodeterminazione dei popoli e dell’indipendenza della nostra repubblica. Il caso del Kosovo o del Sud Sudan sono dei casi esemplari. Tuttavia, noi non ci scoraggiamo. Il nostro Stato è nato quando, come le più importanti democrazie del mondo, abbiamo risposto ai soprusi esercitando il nostro diritto alla ribellione e all’autodeterminazione. Ci hanno imposto una guerra impari, ma nonostante tutto, noi ne siamo usciti vittoriosi. C’era un’asimmetria valoriale. Noi combattevamo per le nostre case e per i nostri diritti fondamentali, gli azeri erano impegnati in un’invasione territoriale».

Qual è il rapporto con l’Armenia?

«Vede, dopo essere sopravvissuti al genocidio, tutti gli armeni della Diaspora vedono nell’Artsakh (Nagorno-Karabakh) e nell’Armenia, la loro Patria. Vi è un rapporto simbiotico fra Artsakh, l’Armenia e la Diaspora in termini identitari. Ciò non pregiudica la nostra indipendenza de facto e la nostra determinazione a raggiungere un riconoscimento de jure della nostra Repubblica».

Ci fu una componente religiosa nel conflitto?

«No, i motivi erano universali, in termini di diritti. Tuttavia, ci fu una strumentalizzazione religiosa da parte azera durante la guerra quando il fronte azero era composto da jihadisti ceceni e mercenari afgani».

In assenza di un riconoscimento del Nagorno-Karabakh, come si sente il presidente di un paese che de jure non esiste?

«Non mi sento un presidente dimezzato, i cittadini mi hanno eletto e stiamo combattendo per la libertà del nostro popolo. Ieri nelle trincee, difendendo i nostri villaggi, non avevamo spazi per ritirate, oggi, sul fronte della consolidamento delle nostre istituzioni democratiche, sono molto determinato».

Ci furono delle colpe del Nagorno-Karabakh durante la guerra?

«Tutte le guerre sono delle tragedie. Condivido il dolore per la morte di ogni singolo uomo da una parte e dall’altra. La guerra ci è stata imposta, l’abbiamo vinta e abbiamo sviluppato una certa sensibilità: una nuova guerra è evitabile. Apparentemente, a Baku manca questa sensibilità e certe lezioni sono state dimenticate».

E i rapporti con l’Italia?

«Con il popolo italiano ci sono continue contaminazioni culturali e condivisione valoriale. Non vi sono ancora rapporti formali di tipo politico ed economico. Stiamo capitalizzando su una plurisecolare amicizia. Certo non è difficile se si pensa quanto il vostro Risorgimento abbia ispirato la nostra lotta, o in tempi più recenti, durante la guerra, quanto erano importanti le missioni dei politici lombardi e veneti in Artsakh. Abbiamo la consapevolezza che l’Europa, quella dei popoli, non finisce in Artsakh, ma piuttosto inizia con Artsakh. Siamo l’avamposto di quell’Europa».

A cent’anni dal genocidio armeno qual è il Suo messaggio?

«Noi, i discendenti dei sopravvissuti a quel genocidio, ci siamo impegnati, da soli, per evitare un altro genocidio vent’anni fa. Lo faremo ogni qualvolta ce ne sarà bisogno. Certo, l’armenofobia propagata da Baku è un avventurismo piuttosto pericoloso».