Mercoledì 11 Giugno 2025
ALDO BAQUIS
Esteri

Il conflitto a Gaza. L’esercito israeliano avvia l’offensiva di terra

Hamas: accordo solo con la garanzia della fine della guerra

Sfollati palestinesi fuori da una mensa della carità a Gaza per ricevere razioni alimentari

Sfollati palestinesi fuori da una mensa della carità a Gaza per ricevere razioni alimentari

Preceduta da intensi bombardamenti aerei e d’artiglieria, l’operazione ‘Carri di Gedeone’ è iniziata ieri con il graduale ingresso di alcuni chilometri nel sud e nel nord di Gaza di cinque divisioni dell’Idf a cui è stato ordinato di puntare alla distruzione delle residue capacità militari e amministrative di Hamas. "L’unica cosa che adesso ci può fermare – ha spiegato il portavoce militare Efraim Defrin – è la liberazione dei nostri ostaggi e il loro ritorno a casa". Nelle stesse ore, su crescente pressione a Doha (Qatar) dell’emissario Usa Adam Boehler, Hamas ha fatto sapere che potrebbe accettare una tregua di 60 giorni con la liberazione di 7-9 ostaggi assieme con 300 prigionieri palestinesi se essa fosse inquadrata in un accordo (garantito dagli Usa) riguardo la fine del conflitto. E anche il premier Benjamin Netanyahu ha evocato un possibile assenso israeliano a un accordo che metta fine alla guerra, ma a tre condizioni perentorie: "La liberazione di tutti gli ostaggi; l’esilio forzato dei terroristi di Hamas; la smilitarizzazione di Gaza". In pratica, la distruzione definitiva della sua ala militare.

Il tutto proprio mentre si sono rincorse per tutta la giornata notizie sulla morte dei fratelli di Yahya Sinwar, il leader di Hamas ucciso nell’ottobre scorso: Muhammad sarebbe morto in un raid isrealiano, mentre Zakaria sarebbe vivo ma grave.

Secondo Defrin, l’operazione ‘Carri di Gedeone’ prevede un’ulteriore suddivisione della Striscia in settori separati e lo "spostamento della popolazione, per la sua difesa". Nelle aree così occupate l’esercito provvederà a distruggere tutte le strutture di Hamas "sopra e sotto il terreno". L’esercito occupa ampie zone fra Rafah e l’Asse Morag (nel sud della Striscia), l’Asse Netzarim (nel centro) e l’intera area nord fra la linea di demarcazione e il campo profughi di Jabalya.

Israele progetta di allestire nel sud della Striscia (fra Rafah e Khan Yunis) quattro aree umanitarie, capaci di accogliere fino a 1,2 milioni di persone, verso cui convogliare gli aiuti che sarebbero distribuiti da un’agenzia Usa. Ieri i progetti sono stati esaminati dal gabinetto di sicurezza, al cui interno ci sono opposizioni. Ma lo stesso Netanyahu, nel contesto delle forti pressioni arrivate dagli Usa, ha annunciato la ripresa degli aiuti umanitari con effetto immediato. "Dobbiamo premere sul gas fino in fondo", ha detto il ministro per la Sicurezza nazionale Itamar ben Gvir. "Dobbiamo entrare con tutta la forza e completare l’opera: occupare, mantenere il controllo sul terreno, martellare il nemico e liberare con la forza i nostri ostaggi".

Ma i vertici militari conoscono i propri limiti. Comprendono che il volume di fuoco degli ultimi giorni (oltre 130 palestinesi morti in 24 ore) mette a rischio gli ostaggi, i cui familiari continuano a protestare. Un altro punto debole riguarda i riservisti, fra i quali serpeggia il malcontento. Il portavoce Defrin ha assicurato che anche in questa occasione si sono arruolati "in grandi numeri". Ma nei giorni scorsi il comandante della manpower delle forze armate ha riferito con preoccupazione che in alcune unità di riservisti la percentuale di arruolamenti ha toccato solo il 54%. Ad accrescere la loro frustrazione vi è la circostanza che in queste settimane Netanyahu cerca con i partiti ortodossi una intesa in Parlamento per legalizzare l’esonero in massa dalla leva di decine di migliaia di seminaristi. D’altra parte l’esercito necessita al più presto di 10-12mila nuove leve in sostituzione dei caduti, dei feriti e di quanti soffrono di traumi da combattimento. I vertici militari garantiscono che in ogni caso agiranno secondo le istruzioni ricevute dal governo, ma fra le righe fanno anche trapelare un senso di scetticismo circa le probabilità di successo della nuova operazione.