Roma, 20 aprile 2025 – “Non mi stupirei se alla fine si arrivasse a un’area di libero scambio euro-americana in funzione di contenimento della Cina”. Federico Ottavio Reho, Coordinatore della ricerca dell’Istituto Wilfried Martens, il think tank del Ppe, non esclude un epilogo positivo della crisi dei dazi in cui la premier Giorgia Meloni si è inserita da pontiera con Washington in costante contatto con Ursula von der Leyen. Ieri il sottosegretario alla presidenza Giovanbattista Fazzolari ha prospettato un vertice Usa-Ue a Roma, anche se i partner scettici come la Francia preferirebbero Bruxelles. Rappresentare i 27 spetterebbe al presidente socialista del Consiglio Antònio Costa. Data plausibile: prima del vertice Nato di fine giugno all’Aja. Officiare un incontro a Roma “sarebbe un successo evidente”, osserva Reho.
La premier Giorgia Meloni porta a casa da Washington più sostanza o più seduzione nei riguardi di Donald Trump?
“Quanto ci sia di sostanza lo vedremo nei prossimi mesi. Certamente ha fatto un passo avanti non solo simbolico. I vertici Ue cercano da mesi di realizzare un incontro ad alto livello con Trump, ma von der Leyen sinora non è riuscita, anche a causa della preclusione degli Usa all’idea di trattare con l’Europa in quanto tale. Il fatto che ci sia stata un’apertura, benché non ancora un impegno, mi sembra già un passo avanti importate”.

In ciò Meloni svolge più un ruolo di ambasciatrice degli Usa presso l’Ue o dell’Ue presso gli Usa?
“Penso si veda come un ponte, una facilitatrice. Con lo slogan ‘rifare grande l’Occidente’ colloca l’interesse italiano in una struttura di cerchi concentrici fatta da Ue e Usa. E per il momento è riuscita meglio di quanto si pensasse. Non sta agendo come cavallo di Troia degli interessi americani in Europa, ma da facilitatrice, che si è ben coordinata con Bruxelles e cerca di ridurre le distanze tra le due sponde. Teniamo conto che, se questa strategia dei dazi ha qualche senso, non è da intendere in chiave anti-europea”.
E invece?
“In funzione anti-cinese. Di inversione cioè della strategia che, da Clinton in poi, puntava a integrare la Cina nella speranza che si occidentalizzasse e ha finito poi per ritorcesi contro gli Usa. Che non possono permettersi una guerra commerciale con tutti e sono perciò probabilmente interessati a un accordo con l’Europa. Meloni si è inserita in questo quadro”.
Però la Germania e la visita del premier spagnolo Sanchez hanno lanciato segnali alla Cina.
“Credo che nessuno nella classe dirigente tedesca pensi di poter sostituire gli Usa con la Cina. Sono leve negoziali, ma il rapporto strategico resta con gli Usa”.
Anche l’asse tra Meloni e il Ppe tedesco è solidissimo.
“Non so se è un asse. Ma il rapporto di lealtà e collaborazione è intenso, specie al vertice. Meloni ne avrà sempre più bisogno anche in vista dell’intesa da consolidare col prossimo cancelliere Merz e il suo governo. Ci dovrà essere una sponda Roma-Berlino-Bruxelles per realizzare un buon risultato con gli Usa. Senza dimenticare gli altri, in particolare la Francia. Anche in questa chiave la relazione col Ppe resta strategica”.
Mentre una vittoria del candidato del Pis su quello del Ppe alle presidenziali polacche di maggio rafforzerebbe Meloni?
“Ora che ha guadagnato credibilità, parla con Trump e ha un rapporto solido con von der Leyen e Weber, una vittoria dei polacchi dei Pis, che detestano il premier Tusk, rischierebbe di complicare i rapporti col Ppe e rafforzare i polacchi all’interno dei conservatori di Ecr, che oggi Meloni domina”.