Se qualcuno pensava che Draghi sarebbe andato a Washington a dare a Biden un sostegno incondizionato per una guerra globale, si sbagliava di grosso. La strategia che il premier delinea con il tono di chi parla più a nome della Ue che dell’Italia, quando incontra i giornalisti, è diversa da quella tratteggiata finora dalla Casa Bianca. Lo ammette lui stesso: "Le visioni europee non sono in contrasto con gli Usa, ma stanno cambiando". Ventiquattro ore dopo il colloquio con il presidente americano, super Mario dice con chiarezza che è arrivato il momento di negoziare la pace, naturalmente senza imposizioni altrimenti "si trasformerebbe in un disastro". È mutato il quadro, muta la cornice: "Inizialmente era una guerra in cui si pensava ci fosse un Golia e un Davide, oggi il panorama si è capovolto, non c’è più un Golia. La Russia sul campo non si è dimostrata invincibile". Parte da qui per rilanciare l’idea della trattativa: quando Putin mi disse al telefono che era presto, era in vantaggio – scandisce – ora non lo è più. Urge aprire un tavolo a cui tutti devono sedersi, pure Biden l’unico, par di capire tra le righe, che può spingere Mosca al negoziato. "Siamo tutti tentati di non sederci con Putin al G20, ma significherebbe abbandonare il resto del mondo". A definire i contorni della pace, e dunque a sancire cosa si intende per vittoria, deve essere il presidente ucraino Zelensky. Lo ripete tre volte in conferenza stampa, prima di andare a Capitol Hill per incontrare la speaker della Camera Nancy Pelosi: sicuramente non spetta allo Zar ma – precisazione che piace molto qui da noi – non sono neppure gli Stati Uniti o la Nato a poterlo fare. A disegnarne cioè il perimetro e la durata. Un primo passo per il dialogo potrebbe ...
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