
Il giorno dell’insediamento aveva promesso di portare la pace nel mondo. Ma sono stati cinque mesi di dietrofront. E si combatte ancora su tutti i fronti.
di Lorenzo Mantiglioni
ROMA
Una politica estera muscolare, un passo in avanti e uno indietro, la strategia del "bastone e della carota". Ci sono molti modi per leggere i primi sei mesi (circa) del secondo mandato di Donald Trump. L’inquilino della Casa Bianca, chiamato a fronteggiare una serie di crisi internazionali (tra cui una, quella dei dazi, nata per sua volontà), ha indubbiamente cambiato più volte opinione, alzando e abbassando i toni a seconda dell’andamento dei fatti, mostrando un comportamento ondivago degli Stati Uniti che spesso non ha semplificato il quadro generale.
IL FRONTE UCRAINO
Il primo (macro) caso è sicuramente quello della guerra tra Ucraina e Russia. Ben prima dell’insediamento, Donald Trump aveva annunciato di poter chiudere la crisi in meno di 24 ore, ma dopo 160 giorni di amministrazione (e di ore quindi ne sono passate 3.840) la questione è rimasta aperta. Inizialmente ha strizzato l’occhio alla Russia, poi ha attaccato Zelensky ("Un dittatore senza elezioni e un comico modesto"), raggiungendo l’apice nello Studio Ovale quando si è scagliato contro il leader ucraino in mondovisione ("Stai giocando d’azzardo con la Terza guerra mondiale"). Nelle settimane successive, con la svolta delle trattative sulle terre rare, gli Usa hanno "riabbracciato" Kiev e il tycoon si è rivolto direttamente a Putin: "Vladimir, stop! Chiudiamo l’accordo di pace" e "forse mi prende in giro".
A maggio l’opinione di Trump è cambiata ancora ("Putin è impazzito", "Zelensky crea problemi", "Non dovevamo farci coinvolgere") fino ad arrivare, in queste ore, a sperare in un cessate il fuoco – se accettato da Putin – grazie al ribasso del prezzo del petrolio.
REBUS MEDIO ORIENTE
L’altra crisi sul tavolo è quella del Medio Oriente. Alla fine di febbraio, Trump ha postato un video generato dall’intelligenza artificiale in cui si vedeva la Striscia di Gaza trasformata in una riviera di lusso, poi si è scagliato contro gli Houthi, ha spinto per una tregua fino ad apparire "frustrato" per i continui bombardamenti israeliani. Quando il 13 maggio è scoppiata la guerra tra Teheran e Tel Aviv (mentre erano in atto i negoziati sui programmi nucleari persiani), il tycoon ha invocato una trattativa di pace, poi ha preteso la resa incondizionata della Repubblica islamica e infine ha bombardato i siti nucleari di Natanz, Fordow e Isfahan, nonostante avesse dichiarato di prendersi quattordici giorni per vagliare le opzioni sul tavolo. Successivamente ha teso la mano a Teheran, aperto al dialogo, ma ha indispettito i vertici persiani quando ha affermato di aver salvato Khamenei "da una morte brutta e ignominiosa" pur "conoscendo perfettamente il posto in cui si nasconde".
LA GUERRA COMMERCIALE
Infine c’è il tema dei dazi. Agli inizi del mese di aprile sono scattati i dazi americani, colpendo vari Paesi. Una decisione che ha spaventato i mercati e incrinato i rapporti degli Usa con i partner commerciali, tanto che Donald Trump, il 9 aprile, ha deciso di sospenderli per 90 giorni e avviare i negoziati ("Mi baciano il c…, stanno morendo dal desiderio di fare un accordo"). Fra pochi giorni, esattamente il 9 luglio, terminerà però la sospensione, con il rischio di importanti ripercussioni sull’economia mondiale. Trump ha escluso una proroga ma, visti i continui stravolgimenti di strategia, chi può dirlo?