Giovedì 22 Maggio 2025
Agnese Pini
Esteri
Editoriale

La Croce scomoda per chi cerca alleanze più che verità

Vance prega in ginocchio durante i riti della Passione

Vance prega in ginocchio durante i riti della Passione

Roma, 20 aprile 2025 – La scena è potente: JD Vance entra nella Basilica di San Pietro nel giorno del Venerdì Santo. Si siede in silenzio, nella penombra di una liturgia che ha rinunciato alla gloria, ai canti, alla retorica: la Croce è l’unico segno esposto. È forse il momento più simbolico del viaggio in Italia del vice presidente Usa: il potere del mondo che si trova davanti un altare nudo. Sembra un monito: la Croce non si presta a manipolazioni. È scomoda, è radicale, è universale. Il giorno dopo, Vance è ricevuto dal cardinale Pietro Parolin e dall’arcivescovo Gallagher. Volti sorridenti, foto di rito, comunicato finale di dodici righe: “Scambio di opinioni”, si legge, ma le divergenze sono evidenti. Ucraina, Gaza, migranti, cooperazione internazionale, Cina. Soprattutto, un’idea diversa del rapporto tra fede e politica. Non è solo un confronto tra Stati, né un passaggio istituzionale.

È lo scontro sempre più esplicito tra due visioni del mondo e due idee di cattolicesimo. Quella di un Papa che predica una fede aperta, inquieta, misericordiosa, e quella di chi vorrebbe piegare la dottrina a una logica identitaria, sovranista, selettiva. Il primo attrito, a distanza, era già andato in scena mesi fa. Per difendere la stretta anti-migranti dell’amministrazione Trump, Vance aveva invocato nientemeno che Sant’Agostino e il suo ordo amoris, interpretato a modo suo come una gerarchia d’amore da riservare prima ai propri cittadini e poi, eventualmente, agli altri. Il Papa gli aveva risposto con parole inequivocabili: il vero ordine dell’amore, aveva scritto in una lettera senza precedenti ai vescovi americani, si scopre attraverso “una fraternità aperta a tutti, nessuno escluso”. Non è teologia astratta. È politica.

Il tentativo del governo Usa è chiaro: normalizzare il rapporto con la Chiesa cattolica, costruendo una nuova alleanza attraverso volti apparentemente dialoganti ma ben inseriti in una strategia politica di egemonia religiosa. E così, mentre il Papa piange per i migranti morti, la Palestina martoriata e un’Ucraina dimenticata, la Casa Bianca trumpiana scommette su ambasciatori ultra-conservatori, su cardinali ostili a Francesco, su campagne mediatiche e manovre giudiziarie che mirano a delegittimarlo. Trump lo attacca apertamente. Vance lo contraddice cercando di essere elegante. E alcuni cardinali americani lavorano nell’ombra per costruire il dopo-Francesco. Ora: la libertà ha bisogno della fede, ma la fede non ha bisogno del potere. E ogni volta in cui il cristianesimo ha cercato protezione dal potere, ha finito per perdere se stesso. Eppure la questione del rapporto tra religione e potere è oggi più che mai attuale, e scivolosa. Lo si è visto di recente in Russia, dove il patriarca Kirill benedice le guerre di Putin in nome della “santa Rus’”. Lo si era visto negli Stati Uniti, dove Trump - ancora al primo mandato - posava con la Bibbia davanti a una chiesa chiusa contro le proteste del Black Lives Matter. E ora lo si rivede nel tentativo della destra americana di egemonizzare la fede cattolica, in nome di una religione “forte, identitaria, sovrana”.

In questo contesto, la Santa Sede appare più sola, ma anche più libera. E proprio queste tensioni potrebbero rivelarsi, paradossalmente, provvidenziali. Potrebbero persino rinsaldare l’autorità di Francesco, oggi più fragile nel corpo ma più forte nello spirito, dopo aver sfiorato la morte e aver visto - nei giorni più duri del ricovero e della convalescenza - i suoi avversari costretti a smorzare i toni e a pregare per lui. Chi sogna di prendere il Vaticano, come si prova a prendere la Groenlandia o Panama, rischia dunque di fallire. Il Vaticano non è la Groenlandia e la Chiesa, almeno quella che continua a respirare il Vangelo, non è scalabile come una multinazionale o una corte giudiziaria. È un corpo vivo. Talvolta, nei momenti più bui, sa ritrovare se stessa proprio nel confronto con il potere. Quando, cioè, si ricorda che la sua forza non viene dalla diplomazia, ma dalla profezia, forse l’unica cosa al mondo non negoziabile. Neppure da Trump.