Così l'Isis elude i controlli in aeroporto. "Bombe anche nel vino"

L'analista israeliano Karmon: bastano piccole quantità di liquido

Controlli in aeroporto (NewPress)

Controlli in aeroporto (NewPress)

​​Roma, 21 maggio 2016 - È POSSIBILE che ci siano ordigni molto sofisticati che eludono i controlli degli aeroporti anche dopo la mattanza del 13 novembre a Parigi?

«In teoria sì», è la risposta poco rassicurante di Ely Karmon , esperto di rango internazionale al Centro di Controterrorismo di Herzliya e già consulente del ministero della Difesa israeliano.

Si parla molto di ordigni che sfruttano la nanotecnologia.

«Io non ci credo tanto. Sono un’arma a doppio taglio, instabile, troppo pericolosa anche per chi la maneggia. Penso ad altro. I liquidi per esempio».

In che senso?

«In aereo non se ne possono portare più di 200 milligrammi. Ma non è escluso che qualcuno riesca a potenziarne le caratteristiche e che anche solo 50 milligrammi possano diventare pericolosi. Poi esistono gli altri progressi della tecnologia, per esempio i piccoli droni, oggetti volanti senza pilota. Per non parlare del terrorismo informatico. Anche i computer dell’aereo possono essere attaccati. In questo campo, purtroppo, abbiamo avuto prova di grande fantasia».

C’è stata un’evoluzione?

«I gruppi terroristici hanno sempre tentato di costruire congegni che i servizi di sicurezza non conoscevano. Noi israeliani, che siamo stati i primi a essere attaccati sugli aerei, abbiamo assistito a cambiamenti continui. All’inizio gli ordigni erano abbastanza grandi e non sofisticati. Ma già negli anni Settanta abbiamo sequestrato in dogana ai palestinesi bottiglie di vino Chianti che contenevano il 50% di vino e altrettanta nitroglicerina. Poi è arrivata la stagione delle piccole ceramiche artigianali di stile marocchino che invece erano fatte con un esplosivo molto sofisticato. Subito dopo sono passati al Semtex, un materiale militare di origine ceca».

Un altro punto debole potrebbero essere i bagagli in stiva.

«Anche questa non è una novità. Il gruppo palestinese ‘15 maggio’ (la data nella quale nel 1948 la Gran Bretagna rinunciò al mandato sulla Palestina, ndr ) assieme ai servizi segreti iracheni costruì venti valigie esplosive e una deflagrò a terra a Honolulu. Era nella stiva di un aereo della Panam. Per non parlare della piccola radio a transistor usata per l’attentato di Lockerbie. Prima ne erano state trovate altre in Germania. In combutta con i servizi siriani le aveva realizzate il Fronte Popolare per la Liberazione della Palestina di Ahmed Jibril. Di recente in Yemen sono state rintracciate stampanti pronte a saltare in aria e destinate a voli cargo. Le ha scoperte l’intelligence saudita che ha avvisato gli altri Paesi».

C’è anche la falla possibile del personale che lavora negli aeroporti.

«È il tema della cooperazione sul posto. Prima di passare per il Cairo e per Parigi, nei due giorni precedenti l’Airbus 320 dell’EgyptAir era stato anche in Eritrea. Basta che una persona infili l’ordigno in una valigia. Uno degli attentatori di Parigi, Salah Abdeslam, era in contatto con Abdellah Chouaa che per qualche mese aveva lavorato allo scalo di Bruxelles come addetto ai bagagli. Infine potrebbe esserci un infiltrato nell’equipaggio».

Ha in mente un caso preciso che riguardi l’Egitto?

«Un co-pilota partito da New York e diretto al Cairo si è ucciso precipitando con l’aereo. Per quello che ci riguarda hanno anche tentato di attaccare gli equipaggi israeliani negli alberghi. I terroristi si adattano alle condizioni sul terreno. La vita non può essere sicura al 100%. Dopo aver esaminato centinaia di passeggeri, gli addetti ai controlli possono essere stanchi».

Esiste un materiale che i metal detector non vedono?

«Che io sappia no. Ma ci sono Paesi come l’Iran che possono lavorare su questo».