Congo, un cuore di tenebra dove regna la violenza. "Chi fa affari d'oro è la Cina"

L’analista Di Liddo: "Territorio ricchissimo devastato dalla guerra tra bande per il controllo delle risorse. L’Italia ha un ruolo marginale"

Militari Onu (Ansa)

Militari Onu (Ansa)

"Le province orientali del Congo, i due Kivu innanzitutto, sono, citando Conrad, un cuore di tenebra. È una regione ricchissima di risorse, ma abbandonata a stessa, sottosviluppata, nella quale da sedici anni, dopo la seconda guerra del Congo che dal 1998 al 2003 vide combattersi 8 eserciti nazionali e 21 milizie, oggi si confrontano oltre venti gruppi etnici con le relative milizie che agiscono anche come ’proxy’, come proiezione dei paesi vicini: Ruanda, Burundi e Uganda. Tutti sono contro tutti. E a loro si è aggiunta negli ultimi 5 anni una crescente presenza jihadista". Così Marco Di Liddo analista responsabile del desk Africa del Cesi, il Centro studi internazionali.

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Dottor Di Liddo, siamo di fronte a terrorismo o a banditismo? Sequestro per fini politico-ideologici o per riscatto?

"La seconda ipotesi mi pare prevalente. Anche se, negli ultimi quattro anni, è cresciuto esponenzialmente nel Kivu il ruolo dell’Alleanza delle Forze Democratiche. Una milizia multietnica un tempo supportata dall’Uganda e dal movimento islamico Tablighi Jamaat, che dal 2015-2016 ha visto l’intensificarsi dei contatti con la galassia jihadista e una parte dei suoi combattenti giurare fedeltà al Califfo al-Baghadi e fondare così una branca locale dello Stato Islamico, la Provincia dello Stato Islamico in Africa Centrale. L’ipotesi di un rapimento politico non si può quindi assolutamente escludere, ma la pista prevalente è a mio avviso quella del rapimento per fini economici, forse da parte di milizie come le Forze democratiche per la liberazione del Ruanda".

L’attacco è stato contro gli italiani in quanto tali?

"Non direi, è stato contro un convoglio delle Nazioni Unite, contro degli occidentali. Quello era il target".

L’Italia ha interessi strategici nella regione?

"Nulla di comparabile rispetto ad altri Paesi. L’Italia è presente con la diplomazia, la cooperazione, le ong. E ci sono interessi legati alle risorse minerarie e all’energia, ma la nostra è una presenza secondaria rispetto a quella in Etiopia, Nigeria, Somalia, Kenia, Camerun, Angola. In politica estera ci sono delle priorità e la regione dei Grandi Laghi non è una nostra priorità".

È una sconfitta dell’Occidente non aver trovato una soluzione per le tensioni dell’area?

"Le responsabilità storiche del colonialismo belga sono indubbie. Ma i tentativi fatti negli ultimi vent’anni dalla comunità internazionale di pacificare la regione, anche inviando sul posto una missione di stabilizzazione chiamata Monusco, ci sono stati. Però sono sostanzialmente naufragati perché le classi politiche locali non hanno alcun interesse alla stabilizzazione. Kinshasa, la capitale, è drammaticamente lontana; l’esercito congolese è visto e spesso si comporta da forza di occupazione; mentre le classi dirigenti locali sono autoreferenziali, vogliono continuare a gestire la cosa pubblica in maniera nepotistica e mantenere il controllo sulle ricchezze del territorio. Il quadro è aggravato per l’influenza dei paesi vicini, come il Ruanda e il Burundi, che continuano, direttamente o indirettamente a destabilizzare la Repubblica Democratica del Congo e utilizzare le milizie etniche per controllare i traffici illeciti".

Chi conta di più, oggi, nella regione dei Grandi Laghi?

"Il paese che conta di più oggi è la Cina, che ha una forte penetrazione economica e commerciale ma non ha interesse alla stabilizzazione. Anzi, fa pragmaticamente affari con tutti coloro che hanno il controllo delle risorse minerarie. E anche per questo, perché non chiede di modificare gli equilibri di potere locali, è benvenuta e preferita agli europei".

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