Cina-Taiwan: i perché della crisi e cosa hanno da perdere gli Usa

L’isola di Formosa al centro dello scontro diplomatico tra Biden e il governo di Pechino. La storia di un dossier decisivo per l’equilibrio geopolitico

Pechino (Cina), 24 maggio 2022 – Perché Cina e Stati Uniti litigano per Taiwan? Come mai un’isola di appena 36 chilometri quadrati, per quanto Formosa, cioè bella, come la battezzarono i portoghesi, è così importante? Rischia di diventare una nuova Ucraina? Sono domande che rimbalzano da una parte all’altra di un mondo turbato da tre mesi di una guerra costantemente sull’orlo di un’escalation planetaria. La risposta a tanti interrogativi rischia di sembrare semplice, se non addirittura brutale: Taiwan è una leva per il dominio globale. Controllando l’isola, gli Stati Uniti tengono la Cina chiusa nel “recinto di casa”. Ed è per questo che Pechino, che coltiva ambizioni di potenza, intende riprendersela.

Il memoriale di Chiang Kai-shek a Taipei (Ansa)
Il memoriale di Chiang Kai-shek a Taipei (Ansa)

La nascita di Taiwan

Ebbene sì: riprendersela. Formosa, dopo la parentesi coloniale, ha fatto parte per circa due secoli degli imperi cinesi. Fino al 1895. Quell’anno, infatti, in virtù del trattato di pace di Shimonoseki, fu ceduta al Giappone. Salvo poi essere riassegnata alla Cina al termine della Seconda guerra mondiale. A quelle latitudini, in quegli anni, le armi furono imbracciate per sopraffare dei connazionali. La guerra civile cinese si risolse con la vittoria dei comunisti di Mao Tze-Tung. Gli sconfitti, un milione e mezzo di nazionalisti guidati da Chiang Kai-shek, attraversarono lo stretto di Formosa e ripararono a Taiwan. Chiamarono il nuovo Stato Repubblica di Cina, rivendicando fin dal nome l’eredità esclusiva di una civiltà millenaria. Subito giunse il riconoscimento degli Stati Uniti, che per giunta concessero ai nuovi amici un seggio permanente nel Consiglio di Sicurezza delle Nazioni Unite. Nel mondo già infuriava la Guerra Fredda: Pechino veniva ‘punita’ per l’alleanza con l’Unione sovietica.

Gli Stati Uniti riconoscono "una sola Cina"

Qualche anno dopo cambiarono le carte in tavola. Nel medesimo contesto dello scontro tra blocchi, la Cina poteva servire in funzione anti-sovietica. Così, dal 1971 gli Stati Uniti smisero di riconoscere ufficialmente il governo Taipei, tuttora presente nelle carte geografiche di una manciata di Paesi. Ma Washington non rinnegò l’alleanza. Con un’acrobazia diplomatica accontentò Pechino senza abbandonare Taipei. Affermò la dottrina politica di “una sola Cina”, legittimando formalmente soltanto la Repubblica Popolare. E la Repubblica di Cina, alias Taiwan? Salvata dalla cosiddetta “ambiguità strategica”, una formula che contempla un unico soggetto sul piano internazionale, prevedendo tuttavia al suo interno entità differenti amministrate con diversi sistemi istituzionali. Una goccia d’olio liberale, Taiwan, in un bicchiere d’acqua comunista, la Cina.

La riunificazione programmata

Pacifico? Tutt’altro. Pechino ha già programmato la riunificazione, prevista entro il 2049, centenario della fondazione della Repubblica Popolare. Per gli Stati Uniti, tuttavia, l’indipendenza di fatto di Taipei è una linea rossa inderogabile. Situata ad appena 140 chilometri dalla costa cinese, infatti, Taiwan è la porta d’accesso all’oceano Pacifico, uno spazio presidiato da americani e giapponesi. Pechino vorrebbe mettere il muso fuori dalla finestra perché sa bene che dominare i mari significa controllare le rotte commerciali. E non solo. Vuol dire, in due parole, essere potenza. La posta in gioco è questa.

Le parole di Biden e la reazione di Pechino

È per questo che ieri il presidente americano Joe Biden a domanda ha risposto: “Gli Stati Uniti interverranno militarmente se la Cina tenterà di prendere Taiwan con la forza”. Per qualcuno si è trattato di una gaffe; per altri, invece, di un messaggio indirizzato direttamente a Xi Jinping. Infatti, la reazione del governo comunista non si è fatta attendere. “Nessuno dovrebbe sottovalutare la decisa determinazione, la ferma volontà e la forte capacità del popolo cinese di difendere la sovranità e l’integrità territoriale – ha replicato il ministro degli Esteri, Wang Wenbin -, dato che Taiwan riguarda esclusivamente gli affari interni”. Le posizioni sono chiarissime. E inconciliabili. Oggi Pechino non pare disporre della forza militare necessaria per sbarcare a Taipei. E un’annessione pacifica, visto il percorso di separazione culturale intrapreso da Taiwan negli ultimi trent’anni, è tutt’altro che probabile. Il nodo, però, prima o poi sarà sciolto.