A vent’anni dall’11 settembre: l’America (in pace) si scopre debole

Dopo la disastrosa ritirata da Kabul, anche la leadership mondiale è in discussione. Biden a picco nei sondaggi

L'attacco alla Torri gemelle

L'attacco alla Torri gemelle

L’America è in pace. Non accadeva da trent’anni, da quando Saddam Hussein venne ricacciato dal Kuwait. Ma c’è pace e pace. C’è la pace dei vincitori e la pace degli sconfitti. C’è la pace nell’onore e la pace nel disonore. Trent’anni fa, nel marzo del 1991 i veterani di Desert Storm sfilarono lungo la Constitution Avenue. Il palco presidenziale si ergeva proprio di fronte al Vietnam Memorial e George H. W. Bush, padre del meno fortunato e avveduto George W., godeva di una popolarità dell’82 per cento. Meritata. Bush senior e il capo del Pentagono, il generale Colin Powell, avevano vinto in sei settimane. E – cosa più importante – avevano esorcizzato la sindrome del Vietnam: mai più l’escalation di Kennedy e McNamara, quando si fa la guerra usare da subito la massima forza. Anche se, come in quel caso, si trattava di una guerra sotto bandiera Onu.

Lezione dimenticata. In Afghanistan, sotto bandiera Nato, Bush junior e il suo segretario alla Difesa Rumsfeld rispolverarono la sciagurata escalation, impegno in proporzione alla pressione degli avversari. Poi Obama si oppose al generale Petraeus che proponeva un "surge", un rafforzamento strategico. E oggi, a vent’anni dal più grave attacco subito dagli Stati Uniti sul proprio territorio (11 settembre 2001) e dall’inizio della guerra in Afghanistan (7 ottobre 2001), gli Stati Uniti si ritrovano sconfitti e umiliati. Quella in Vietnam fu una sconfitta e la ritirata onorevole. Quella in Afghanistan è stata un’umiliazione e la ritirata una rotta. Messi in fuga da bande di straccioni e non da un esercito regolare.

I talebani sono fanatici islamici. Ospitarono la jihad di Osama Bin Laden, il quale proprio là ordì il duplice attacco a New York e Washington. Per cui oggi, in questo triste ventennale, non è azzardato affermare che alla fine ha vinto lui, il profeta di morte. E poco importa che dieci anni fa Obama sia riuscito a farlo fuori.

L’America non è stata più la stessa dopo quell’11 settembre. All’emergenza terrorismo si unirono la crisi economico-finanziaria, esportata poi in Europa, e la sfida cinese. L’11 settembre 2001 passò alla storia come il più grave attacco subito dagli Stati Uniti dopo Pearl Harbor (7 dicembre 1941). Con una differenza. Pearl Harbor "svegliò il gigante". Così si espresse l’ammiraglio giapponese Yamamoto. New York e Washington, sessant’anni dopo, trovarono quel gigante sfiancato e incerto.

A maggior ragione l’America non è più la stessa dopo il 15 agosto 2021. È un’America dalle ferite ancora aperte. Confusa e mortificata, ripiegata su se stessa, divisa fra rassegnazione e frustrazione, percorsa da una cruda consapevolezza: a centotre anni dalla fine della prima guerra mondiale il secolo americano appare al tramonto. E con esso la pretesa "dell’eccezionalismo americano" , punto di riferimento dell’intero Occidente. I suoi valori di libertà e democrazia sono in ritirata un po’ dappertutto.

Il futuro sembra appartenere ai regimi totalitari (Cina comunista) o autoritari (Russia) o teocratici (Iran) o addirittura terroristici (Afghanistan talebano). Il presidente in carica, il democratico, Joe Biden, lo nega. Parla ancora di leadership occidentale. Ma la sua credibilità riflette il crollo di popolarità e viene messa in dubbio persino dal partito democratico e dai giornali che, in odio a Trump, ne avevano sostenuto la candidatura. New York Times, Washington Post, Wall Street Journal titolano sul disastro strategico e morale. La speaker della Camera Nancy Pelosi cerca di dirottare sul pacchetto di rilancio l’attenzione della nazione.

In alcuni ristoranti dal Montana alla Florida appaiono cartelli in cui si nega l’ingresso a coloro che hanno votato per Biden. Il che non vuol dire che rimpiangano Trump. Anche Donald voleva andarsene dall’Afghanistan. Non in quel modo. E poi Trump è l’unico presidente americano, da Carter in poi, che non abbia avuto una sua guerra. Una la ebbe Reagan (quella fredda, incruenta e vittoriosa), due Bush padre (Panama e Kuwait), una Clinton (Kosovo), due Bush figlio (Afghanistan e Iraq), una Obama (Libia dopo il Nobel per la pace). E Biden? Il tremebondo presidente è già marcato dalla storia. Spera che l’opinione pubblica dimentichi. I democratici accennano sottovoce alle dimissioni. I repubblicani all’impeachment pur non avendo i voti. In realtà lo vorrebbero al suo posto sino alle elezioni di medio termine, il prossimo anno, e così riconquistare il Congresso.

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