{{IMG_SX}}Caracas, 9 febbraio 2008 - OTTO ITALIANI sono scomparsi nel nulla, così come non si trova neppure una traccia del piccolo aereo da turismo che li stava trasportando, il 4 gennaio, all’arcipelago di Los Roques, un paradiso di isolette nel mar dei Caraibi.

 
Più di un mese dopo, in una città del Venezuela, un militare che non potrebbe dire quello che sa, svela qualcosa di agghiacciante: il copilota, unico ritrovato senza vita sulla costa dello stato di Falcòn, a 157 miglia di distanza dal punto del presunto inabissamento dell’aereo, è rimasto vivo in acqua per almeno cinque giorni.

IL SUO CORPO è bianco, gonfio, il volto e i muscoli delle braccia scarnificati dai pesci. Il petto è liscio e senza ferite, mentre la relazione della Direzione nazionale di Protezione civile e amministrazione di disastri di Caracas relaziona al governo italiano: "Il copilota Osmel Afredo Avila Otamendi di 37 anni è morto per lacerazione del cuore e polifratture della cassa toracica, probabilmente per il colpo ricevuto durante la caduta dell’aereo".

A QUESTO punto la ricostruzione dell’incidente ricomincia da quelle parole svelate all’amico capitano dal medico legale di Punto Fijo, dove hanno subito portato il cadavere dell’uomo prima della seconda autopsia nella capitale Caracas: "Per me, è morto da un paio di giorni, forse tre". Il corpo era stato avvistato una prima volta da barche di pescatori l’11 gennaio (sei giorni dopo il disastro), rivisto flottare in acqua la notte del 12 e recuperato soltanto il 13 mattina, sulla lunga spiaggia bianca deserta di Adìcora. Il giubbotto arancione di salvataggio della Transaven è stato ritrovato a 400 metri di distanza.

È il giovane capitano che ha ancora un forte legame con l’Italia, come molti figli di emigranti in Venezuela, a ipotizzare cosa può essere successo: "Indossava solo le mutande perché in caso di ammaraggio ci si deve spogliare per essere più leggeri in acqua". Perché non è stato visto durante le ricerche dai numerosi aerei, elicotteri e barche? "Chissà. Le correnti in questa zona sono molto forti, le onde alte anche 15 metri e la luce stroboscopica sul giubbotto di salvataggio era rotta". E la sete? "Di notte piove quasi sempre ai Caraibi".

IL MILITARE ritiene che il Transaven Let 410 modello Yc2081 con gli otto italiani a bordo (due amiche bolognesi, la famiglia trevigiana con due bambini e una coppia romana in viaggio di nozze), due svizzeri, il pilota e due venezuelani, sia posato in fondo al mare, a circa 1000 metri di profondità, più o meno nel punto dove è stato lanciato l’sos dal pilota alle 9,38 di quel tragico venerdì: "Sono a 3000 piedi di quota, i motori sono entrambi spenti, tento l’ammaraggio". Tre minuti a disposizione in discesa rapida, a 30 chilometri dalla costa di Los Roques. Poche decine di metri e avrebbe superato la barriera corallina dove l’acqua è più bassa.

IL COPILOTA era l’unico a poter aprire la porta accanto a lui (che probabilmente era anche l’unica di tutto l’aereo da turismo venezuelano su cui grava un’indagine), forse il solo in pieno panico a essersi slacciato la cintura di sicurezza per mettersi in salvo. Ma mentre la ricostruzione ufficiale ipotizza che il copilota sia "uscito dall’aereo già morto per i colpi subiti durante l’impatto", quella non ufficiale presume che l’uomo si sia gettato spontaneamente in mare nei 3 minuti che l’aereo ha impiegato a toccare l’acqua. Il portellone si deve essere a quel punto richiuso, lasciando tutti gli altri intrappolati dentro.

IL CAPITANO figlio di italiani spera ancora: sa che quella spiaggia della Penisola Paraguaina è l’approdo di corpi e relitti di aerei e navi affondati. Dice che aspetterà lì Annalisa, Stefano, Sofia, Emma, Rita, Bruna, Paolo e Fabiola.