UNA CAMPAGNA ELETTORALE BRUTTISSIMA

Stiamo assistendo a una delle più brutte e noiose compagne elettorali degli ultimi anni. Poche idee, solo la ricerca di colpi bassi contro l'avversario. Ecco come se la stanno giocando i leader

Alcuni manifesti elettorali nelle strade italiane (ANSA)

Alcuni manifesti elettorali nelle strade italiane (ANSA)

oche idee, qualche slogan, le consuete risse, la solita feccia in giro per social. Niente di nuovo sotto il sole, verrebbe da dire. Ma stavolta la campagna elettorale pare davvero offrire pochi spunti di interesse. Il contesto internazionale di fatto obbligato (chi se la sente di abbandonare l’Ucraina al suo destino?), i disastrati conti pubblici italiani, la crisi energetica che non risparmia nessuno dei gruppi di riferimento delle forze politiche, danno poco spazio di manovra. Si può solo restare in agguato e approfittare di un passo falso dell’avversario. Una sorta di marcamento a uomo (o a donna) come si faceva nel calcio fino agli anni Settanta. Poi almeno il calcio si è evoluto. La politica no. GIORGIA MELONI - DOUBLE FACE Giorgia Meloni corre con i favori del pronostico e non solo, se è vero che tutti i sondaggi sono positivi e addirittura in crescita. Quella del front runner è però una parte scomoda, perché dai agli avversari un obiettivo comune contro cui coalizzarsi. Il suo scopo al momento è evitare scivoloni mediatici e pasticci sulle liste. Per quanto riguarda le liste il risultato pare esserci stato, e a parte qualche intelligentone pescato su Fb a esibire un vecchio calendario del Duce, non si sono registrati casi alla Jonghi Lavarini, il militante di estrema destra candidato dal Fratelli d’Italia alla Camera nel 2018. A livello mediatico qualche piccolo pasticcio c’è stato (il post sullo stupro di Piacenza) ma niente di irreparabile. Più che altro quello che colpisce di Giorgia è la sua volontà di affermarsi all’estero come effettivamente “presidenziabile“, con un profilo rassicurante per le cancellerie della Ue. Anche a costo di contraddire parte delle passate battaglie di Fratelli d’Italia, combattute con parole d’ordine euroscettiche e sovraniste. La Meloni dice che la coerenza è il marchio di fabbrica del suo partito, e mentre lo dice fa sparire tutte le foto con Orban e con Trump che riesce a trovare in giro.  ENRICO LETTA - MINIMALE Enrico Letta sta affrontando una campagna elettorale difficile, come quegli allenatori che iniziano il campionato con la squadra che è stata cambiata all’ultimo momento. Per il segretario Pd gli scenari sono mutati in corsa più di una volta. Prima la fine del campo largo con i grillini che sfiduciano Draghi, poi l’accordo/disaccordo con Calenda infine l’intesa “solo tecnica“ con la sinistra. Non che Letta non ci abbia messo del suo (davvero pensava di poter tenere tutti insieme, da Calenda a Fratioianni, gente che aveva giurato di voler stare dalla parte opposta della barricata?), fatto sta che i sondaggi lo inchiodano alla sconfitta della coalizione. E visto che vincere pare impossibile, Letta ha ripiegato su un obiettivo più alla sua portata, ovvero perdere bene. Arrivare primo partito, far vedere che il Pd è comunque vivo e lotta insieme a noi, e quindi salvare la poltrona di segretario del partito. Non è un granché, ma insomma è un obiettivo. Per riuscirci cerca in tutti i modi di polarizzare lo scontro con la Meloni, che siccome fa comodo anche a lei, accetta la sfida. I refrein della sua campagna elettorale dem sono tutti su quel solco. Più che sulle idee o sulle proposte, su un metodo. Sembra un po’ la scelta della disperazione, ma a volte limitare le perdite funziona. MATTEO SALVINI - A TENTONI Il segretario leghista recita una parte complicata. Deve gestire i postumi della discesa dei consensi dal 34 per cento delle europee alle quote ottenute dalla Lega nel 2018, e, quel che è peggio, al sorpasso di Fratelli d’Italia. Cerca visibilità e spazi politici, ma la situazione è radicalmente cambiata rispetto a due o tre anni fa, quando agitare lo spauracchio dell’immigrazione clandestina o del pericolo sicurezza nelle città ti faceva salire nei sondaggi. Il suo euroscetticismo è una moneta fuoricorso, i passati legami con Putin lo mettono in imbarazzo. Anche quando dice cose intelligenti. Sulle sanzioni per esempio non ha tutti i torti quando avanza il dubbio che forse forse così non funzionano come si vorrebbe. Ma se lo dice Giorgetti passa per intelligente, in bocca a Salvini le medesime cose appaiono sospette. Le stesse dichiarazioni sul futuro premier (“voglio prendere un voto in più per andare io a palazzo Chigi“) sembrano frasi buttate là tanto per fare, quelle cose che si dicono senza crederci. Anche lui al pari di Letta sa di non poter vincere e corre come quei ciclisti che si mettono a ruota di uno più forte sperando di poter sfruttare la scia. SILVIO BERLUSCONI - AMARCORD Il vecchio leone combatte una battaglia coraggiosa, e solo per questo va ammirato. Non è da tutti mettersi a 86 anni tutte le sere in tv a dare filo da torcere agli avversari come se trent’anni non fossero passati. Chapeau. Il risvolto della medaglia è che la ricetta proposta dall’anziano leader è sempre la stessa. Il nuovo miracolo italiano, la flat tax, le pensioni a mille euro. Le stesse cose già promesse in passato, e mai attuate. Ma Berlusconi non si perde d’animo, e va avanti con la stessa determinazione di sempre. Dalla sua ha la consapevolezza (giusta) di occupare uno spazio politico che in realtà esiste, quello dell’ala più europeista del centrodestra, nonostante la decisione di sfiduciare Draghi abbia destato un po’ di di movimenti tra i più moderati (tant’è che in diversi sono usciti). CARLO CALENDA - IN RIMONTA Prima con Letta poi contro, prima contro Renzi poi insieme. L’uomo è volubile da sempre, ma in quest’ultimo mese si è superato. Forse sono stati gli eventi, perché l’alleanza con Fratoianni era francamente indigeribile per uno come lui, ma insomma la foto della firma del patto con Letta poi stracciata dopo qualche giorno resta nella memoria di tutti. Un voltafaccia (comunque lo si voglia vedere è un voltafaccia), che Calenda ha pagato, essendo passata in (almeno) una parte dell’opinione pubblica l’immagine di un leader litigioso e volubile. Il contrario di quello che la gente chiede a un leader, ossia affidabilità e capacità di unire. Calenda cerca quindi di recuperare il gap godendosi la posizione di unica vera novità di queste elezioni (e sappiamo che la gente tende sempre a premiare le novità, vedi 5S nel 2018) e menando a destra e manca. Per adesso si sta muovendo bene, ma non è facile. La sua scommessa è su quanto alla fine si polarizzerà il voto. Per adesso meno di quanto si potesse immaginare. Dalla sua c’è anche che (per ora) il patto con renzi funziona. L’ex premier aveva detto di voler lasciare a lui la ribalta, e così è stato. CONTE - LUCIDO I 5S sono stati in rimonta, o per lo meno stabili. Non c’è da stupirsi. Giuseppe Conte ha individuato due o tre parole d’ordine, un elettorato (potenziale) di riferimento, e a quello si sta rivolgendo. In questo è stato molto lucido, forse il momento più lucido da quando ha lasciato palazzo Chigi. Si rivolge al disagio sociale che il Pd non acchiappa più, ai ceti più poveri, senza dimentirarci qualche incursione in territori movimentisti. Ha disinnescato con bravura la mina Di Battista e quella Grillo, e anche nella formazione delle liste non si sono visti i disastri che qualcuno paventava nel momento in cui entrava in azione la tagliola del no al secondo mandato. L’ex premier si gode la soddisfazione nel vedere l’ex nemico interno Luigi Di Maio quasi estinto (Impegno civico è quotato intorno all’uno per cento) e con Di Maio quei tanti che avevano lasciato il Movimento cinque stelle. Per loro solo un paio di posti nelle liste Pd, e neppure per niente sicuri.