Mercoledì 24 Aprile 2024

De Rita: "L’ideologia ha stancato. Gli italiani votano il nuovo poi stanno a guardare"

Il fondatore del Censis: il presidenzialismo è una proposta fragile. "La sinistra ha fatto il solito errore: quando rimane a corto di idee difende la Costituzione e agita lo spauracchio del fascismo"

Giuseppe De Rita

Giuseppe De Rita

Che Italia è quella che trova Giorgia Meloni? Che cosa ci aspettiamo da lei?

"È un Italia in attesa – scandisce con la consapevolezza di chi ne ha viste tante dall’alto dei suoi 90 anni, Giuseppe De Rita, il fondatore del Censis, il ‘rabdomante’ che da decenni indaga la società italiana –. Aspettiamo di vedere che cosa succede senza grandi entusiasmi. Siamo una comunità di spettatori, non vogliamo spenderci più di tanto per la politica. Aspettiamo. In una fase di sospensione".

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È un’Italia delusa dai partiti quella che ha scelto Meloni?

"La delusione per i partiti c’è sempre stata. Pensi per quanti anni siamo stati delusi dalla Dc, ma la votavamo. Non è quello. È un problema di attesa. Non ci fidiamo più degli altri, dei vecchi. E scegliamo il nuovo per vedere che fa. È un processo che abbiamo visto da qualche tempo. Anche con Berlusconi siamo stati a guardare per vedere che faceva. Anche con un governo stravagante come quello Salvini-Di Maio".

Non c’è timore per il ritorno della destra?

"No. Non abbiamo grandi preoccupazioni, sotto questo profilo, per questo governo e per questa maggioranza".

Eppure, l’evocazione del fascismo è stato un tratto della campagna elettorale e ancora oggi c’è chi dall’estero ci mette sotto osservazione.

"È qualche anno che l’evocazione del fascismo non conta molto. Proprio qualche settimana fa è morto Virginio Rognoni che già anni fa diceva: ‘Mi dispiace che il mio amico De Rita dica: "Basta festeggiare il 25 aprile perché la gente non ci crede più’. Ma è così. E tra qualche tempo le ideologie, i comunisti, i fascisti saranno un ricordo sbiadito. Tanto più con un elettorato giovane. Il richiamo al Fascismo è un meccanismo, un riflesso condizionato della sinistra. Che, a corto di idee, difende la Costituzione a prescindere".

Meloni la vuole cambiare. È d’accordo sul presidenzialismo?

"La capisco, ma vedo le difficoltà e le fragilità della proposta. Capisco che una società frammentata come la nostra abbia bisogno di una guida politica robusta. Così come condivido che un assetto di competenze frastagliato tra ministeri, regioni, autonomie locali, Europa, abbia bisogno di qualcuno che tenga in mano le redini. Però c’è un dato contrario: quello dei contrappesi. Non si può arrivare al presidenzialismo se non si propongono anche i contrappesi: per esempio maggiori attribuzioni alla Corte costituzionale. L’Italia è fatta di contrappesi. Che servono, altrimenti si scatena la perplessità che si voglia solo il potere".

L’elettore pragmatico che lei descrive su che cosa giudicherà il governo Meloni?

"Il giudizio, questa volta, sarà soprattutto e per prima cosa sulla collocazione internazionale dell’Italia. Certo, ci sono le bollette, le pensioni, ma non è su questo che potremo giudicare il successo o no dell’operazione Meloni. La curiosità e l’interesse saranno quelli di vedere se sta con Orban in Europa, ma non ci starà. Ma non starà neanche più di tanto con tedeschi e francesi".

Con chi avrà rapporti privilegiati?

"Starà con gli inglesi e gli americani: il suo sarà un governo anglo-americano, dico scherzando. Un governo che darà il massimo delle rassicurazioni sull’Alleanza atlantica. E sarà utile osservare da quale capitale comincerà il suo giro all’estero. Ma questo, come lei sa, non è il mio mestiere".

Lo specchio riflesso della vittoria della Meloni è nella crisi della sinistra e del Pd. C’è chi punta l’indice sulla distanza dalle classi più povere.

"Sono un po’ incerto e mi dà fastidio il melenchonismo all’italiana. Serve un Mélenchon – si dice – con l’accusa a Enrico Letta di non averlo fatto. Tutti a sinistra e tutti radicali. Non mi interessa".

Non è quello l’errore?

"No. Può darsi che sia strabico, ma ritengo che sia in atto una trasformazione della popolazione che abbandona meccanismi di classe, di appartenenza a ceti, a fasce sociali, poveri, ricchi. Si va verso una dimensione in cui l’elettore è il cittadino. Il cittadino che chiede razionalità e gestione, diritti, sicurezza, rapporti internazionali equilibrati. Operai, impiegati, agricoltori, ricchi poveri. Veniamo da un’altra epoca. Ma oggi andiamo verso il cittadino elettore senza etichette. L’operaio che non si sente più operaio non vota più come operaio ma come cittadino. È incredibile quanto siamo incrostati di cultura degli anni Cinquanta e Sessanta. Da questo punto di vista, Letta ha fatto bene a non accettare la divisione e la visione classista della società".

Ma il partito non l’ha seguito?

"In Letta c’era un retropensiero, una cultura profonda in questa direzione, che non è stata esplicitata, che non si è trasformata in visione comunicata. Ma è quella che vincerà nei prossimi decenni. Se vuoi parlare come partito di governo, devi avere un concetto unitario, non ideologico, fondato su una dimensione civile, non classista. È quello che ha fatto lui, non esaltandolo, lasciandolo a metà, e tentando le alleanze più disparate senza successo".

Giuseppe Conte, però, ha risollevato i 5 Stelle puntando aree di elettorato ben identificabili: per esempio, i percettori del Reddito.

"Certo se parlo a te come a uno che ha preso il Reddito o ha preso sette bonus in un anno, dal monopattino alla facciata, e gli dico “guarda che se non mi voti, te li tolgono”, vuoi che non lo faccia? Certo che lo vota, gli ha regalato sette bonus. Ma quella è la vecchia concezione della politica: la riconoscenza per quello che il politico ha dato. Ma possiamo assumere questo come esempio?".