Elezioni, demonizzare il rivale. Da Craxi a Berlusconi, il vizio antico della sinistra

L’avversario dipinto come male assoluto? Strategia quasi sempre perdente Letta evoca il fascismo per la fiamma di FdI, ma quella a destra è un collante

Bettino Craxi

Bettino Craxi

Roma, 18 agosto 2022 - In campagna elettorale serve demonizzare l’avversario? Conviene farlo diventare un nemico totale? I vecchi manuali di scienza politica non davano una risposta sul tema. Dicevano però che un sistema politico che si alimenta di una contrapposizione di valori piuttosto che di programmi è rivelatore di democrazia immatura. Poi sciorinavano l’elenco delle democrazie mature (poche) e fra queste in testa Stati Uniti e Gran Bretagna (con qualche revisione dopo Trump) e quelle immature, dove trovava sempre un posto la democrazia italiana.

La democrazia bloccata, senza ricambio fra maggioranza e opposizione; il fattore K (Kommunizm) individuato da Alberto Ronchey; la conventio ad escludendum erano aspetti e formule di una demonizzazione del Pci che faceva comodo alla Dc. Senza dubbio la Balena bianca ne trasse vantaggio. Di certo, c’era del vero e del falso in questa delegittimazione dell’avversario. Nel tempo, sempre meno del vero e sempre più del falso, perché il Pci degli anni ’80 assomigliava sempre più a un partito socialista occidentale. Ma restava in piedi l’Unione Sovietica e i legami mai rescissi con Mosca servivano ad una Dc stanca per restare in vita, pur perdendo consensi.

La stessa ricetta, a parti invertite, fu usata dal Pci contro Craxi. Questi aveva il torto di volere emulare Mitterrand per fare del Psi la forza leader della sinistra italiana. Il duello a sinistra era iniziato nel dopoguerra e proseguito ininterrotto per quarant’anni. La propaganda del Pci fece di Craxi, che peraltro aveva le sue belle pecche, il nemico assoluto. Di nuovo, c’era del vero e del falso. Comunque serviva al Pci per rivitalizzarsi e riprendere fiato, coprendo le proprie vergogne. Quando scoppiò Tangentopoli, il Pci, nel frattempo divenuto Pds affondò impietoso il coltello. La demonizzazione era servita, almeno a contenere i danni. Intanto la Dc era morta ed era arrivato Berlusconi che della demonizzazione del nemico politico aveva fatto un programma.

Gli servì? Eccome. La sua campagna mediatica scovava comunisti ’mangiatori di bambini’ per ogni dove. La ’gioiosa macchina da guerra’ di Achille Occhetto si scontrò contro il muro di un anticomunismo ideologico e viscerale che evidentemente stava nella pancia degli italiani anche se mai erano diventati tanto pochi i comunisti a spasso per l’Italia come da quando Berlusconi li aveva reinventati per avere un nemico da demonizzare. La sinistra servì Berlusconi di rimando, con pari delegittimazione. Funzionò, almeno per un po’. Finché la sinistra, con Veltroni e il Pd, un po’ tardivamente, scoprì che non conveniva. Demonizzare il Cavaliere e sfruttare i suoi guai giudiziari non funzionava. Anche perché, con tre televisioni a disposizione, la potenza di fuoco di Berlusconi era imbattibile.

Con l’ultimo decennio abbiamo assistito all’acme della demonizzazione. Questa volta contro tutti. Protagonisti i 5 Stelle. È servita? A loro intendo? Sì e no. Sì perché ci hanno costruito il loro effimero successo. No, perché contro tutto e tutti non si va e soprattutto non si governa, non si conclude niente. Oggi la demonizzazione tocca la fiamma del simbolo del partito della Meloni. Porta voti al Pd? Dubito, perché è un simbolo che aggrega quella parte politica. Meloni ha dichiarato che ne sono orgogliosi, rivendicando origini e tradizioni. La demonizzazione porta voti. A lei.