Di Battista, che fine ha fatto il 'Che Guevara di Roma nord'?

Fuori dal Movimento ma anche dalle elezioni e ridotto a promuovere alle feste di paese il suo nuovo libro, "Ostinati e contrari". Ma rispetto a cosa, poi?

Alessandro Di Battista

Alessandro Di Battista

E dire che molti lo consideravano il leader naturale del futuro centrosinistra, l’uomo capace di trascinare la folla e convincerla a buttare il cuore oltre l’ostacolo dello scetticismo e del disincanto rispetto ad una classe politica dall’odore stantio della muffa e della polvere. E, invece, dopo un giro di giostra parlamentare che gli ha fatto guadagnare l’epiteto di “Che Guevara di Roma nord” (copyright Dagospia) eccolo lì, Alessandro Di Battista, "Dibba" per i più e per i grillini di un’epoca ormai politicamente remota, ridotto a promuovere se stesso nelle feste di paese attraverso libri di dubbio interesse come l’ultimo, dal titolo che è la cifra della sua parabola politica: “Ostinati e contrari”. Bene, ma rispetto a cosa?

Dunque, Dibba non ha più un’identità definita, politicamente parlando. Detesta Luigi Di Maio, il suo "gemello diverso" degli esordi grillini del 2013, a cui ha appiccicato nel tempo gli epiteti più feroci (“poltronaro”, “democristiano”, “Trasformista e traditore”, gli ultimi in ordine di tempo), ha litigato con Giuseppe Conte, perché il leader grillino si è rifiutato di lasciargli carta bianca sul fronte mediatico e molto altro e, in ultimo, vede Beppe Grillo come il vero sconfitto di tutta quest’epoca a 5 stelle, ma siccome è anziano, infierisce di meno. Morale: Dibba è rimasto al palo, nessuna candidatura possibile per lui ovunque, l’unica casa rimasta quella del suo mentore vero dopo la perdita di Gianroberto Casaleggio e il litigio con il figlio Davide, ossia Marco Travaglio, che al Fatto Quotidiano gli ha ridato un nome e una casa battezzandolo inviato nel mondo degli ultimi e autore dei libri della casa editrice di famiglia, la Paper First. In compenso, il “Che Guevara di Roma Nord” continua a sputare sentenze su tutti quelli che, invece, nella campagna elettorale ci stanno mettendo la faccia e il sudore. E, quindi, eccolo qui, ospite fisso dei talk a dire che "la Meloni è la più draghiana di tutti". E Di Maio? "Poco spessore”. Aspro e con una innata vena di supponenza, risulta utile alle reti tv per alzare gli ascolti ma, alla fine, la domanda resta spontanea; perché, invece di criticare gli altri, non si è misurato anche lui con gli elettori?

“Meloni è la politica più draghiana che c'è oggi in Italia, in politica estera dice le stesse cose di Draghi - eccolo Dibba l’atra sera a “Di Martedì” -. Forse proprio perché si vuole accreditare nei salotti buoni di Washington e Bruxelles o forse perché, in maniera legittima, ha stretto un accordo politico sul futuro inquilino del Colle con Draghi o forse perché banalmente è molto meno incendiaria, radicale, post fascista di quanto dica Letta che oggi è il principale alleato della Meloni e di Conte perché ogni volta che parla gli fa avere voti”. 

In precedenza, aveva sparato su Draghi ripetendo la definizione dell’amico direttore Travaglio (“E’ il Lukashenko di Biden, il suo è un governo fallimentare”) passando poi per le armi verbali Di Maio: “Non capisco perché l’esperto Tabacci abbia deciso di suicidarsi politicamente con Di Maio, il principale responsabile della caduta del governo Draghi. La scissione di Di Maio è stata una scemenza, forse ipotizzava che così la legislatura sarebbe durata di più e chissà cosa ha promesso a quei 60 parlamentari che gli hanno creduto e hanno lasciato il M5s. Non lo odio perché riservo il mio odio a persone di maggior spessore, mi auguro solo che non venga eletto perché non amo i trasformisti e i traditori di milioni di voti”. E lui, invece quando lo dimostrerà il suo spessore elettorale? La prossima volta, forse tra 5 anni? Comoda la vita del polemista “Che Guevara di Roma Nord”, sempre in direzione “ostinata e contraria”. Ma di chi e cosa forse non lo capiremo mai.