Lunedì 11 Novembre 2024
PIERO GRAGLIA
Elezioni USA

Due presidenze fragili. Ford non decollò mai. L’europeista Carter archiviò l’era Kissinger

Il successore di Nixon non fu amato: con lui finì la guerra in Vietnam. Il democratico fu eletto nel segno del rinnovamento, ma era ritenuto debole. Cadde sull’Iran khomeinista e sull’invasione russa dell’Afghanistan. .

Il presidente Jimmy Carter con gli ex presidenti Gerald Ford e Richard Nixon

Il presidente Jimmy Carter con gli ex presidenti Gerald Ford e Richard Nixon

Roma, 14 ottobre 2024 – Da Ford a Carter – eredità difficile quando Richard Nixon si dimise fu un doppio choc per gli Stati Uniti. Da un lato c’era un presidente dimessosi sull’orlo della messa in stato di accusa, dall’altro subentrava un vicepresidente che non era stato votato da nessuno. Gerald Ford, infatti, era stato nominato motu proprio da Richard Nixon dopo che il suo vicepresidente eletto, Spiro Agnew, si era dovuto dimettere per accuse di corruzione ed evasione fiscale. Il nuovo presidente era quindi un personaggio che fino a quel momento aveva fatto parlare di sé solo per la sua lontana partecipazione alla commissione Warren Sull’omicidio Kennedy (dove peraltro era tra gli insabbiatori).

Gerald Ford non fu un presidente particolarmente amato, eppure nel breve periodo della sua presidenza – appena 895 giorni – si ebbero eventi significativi, tutti concentrati nel 1975: la fine della guerra in Vietnam nell’aprile, con il ritiro completo degli statunitensi e la riunificazione del paese a opera del Vietminh; la firma degli accordi di Helsinki ad agosto, che dettero vita alla Organizzazione per sicurezza e la cooperazione in Europa (Osce), momento significativo di distensione tra Urss, Usa e Paesi europei (un accordo che oggi, alla luce dell’invasione russa dell’Ucraina, non vale neppure la carta sul quale è stato stampato); la nascita del G6, il primo incontro al vertice dei capi di Stato e di governo di Francia, Germania, Giappone, Gran Bretagna, Italia e Stati Uniti che si tenne a Rambouillet nel novembre 1975 e che, l’anno dopo, divenne G7 con l’aggiunta del Canada al gruppo. A fronte di questi eventi, la presidenza Ford non decollò mai, venendo poi travolta dal rinnovamento impersonato da Jimmy Carter, presidente democratico dal gennaio 1977 al gennaio 1981 e tuttora vivente alla bella età di 100 anni tondi (con Obama, Bush figlio e Trump è uno dei quattro ex-presidenti viventi).

Carter venne sempre considerato dalla voce pubblica un presidente poco deciso, in realtà la storiografia lo ha rivalutato come uno dei presidenti più attivi e intelligenti – e sfortunati – della storia statunitense. Aveva prima di tutto molto a cuore il rapporto con gli europei e la stabilità del vecchio continente: la sua parola d’ordine era una politica estera trasparente, decisa insieme agli alleati, non elaborata alla Kissinger, personaggio per il quale Carter nutrì sempre una profonda diffidenza. Il suo consigliere per la sicurezza nazionale era un altro politologo di origini europee, il polacco Zbigniew Brzezinski, il cui motto era sintetizzato nel titolo di un suo poco noto volume di scritti e riflessioni: ‘Power and Principles’. Che Brzezinski e Carter fossero uomini di principi, nei quali il potere era sottomesso a essi, lo si vide subito chiaramente con la politica incentrata sui diritti umani che Carter portò avanti nei confronti dell’Urss, pur senza condannare il sostegno che gli Usa davano a regimi autoritari in giro per il mondo. Tuttavia, fu un presidente sempre molto sensibile al problema del diritto e alla sua tutela, anche sul piano internazionale.

Per l’Italia poi ebbe una attenzione particolare. I suoi sono gli anni del compromesso storico, la tormentata apertura della Dc verso il Pci di Berlinguer, e del sequestro di Aldo Moro. Carter ordinò una "attenzione senza interferenza" nei confronti della situazione italiana, atteggiamento che il duo Nixon/Kissinger non avrebbe certo avallato. Poi ci fu la sfortuna, la sciagura di un presidente idealista e concreto. Nel marzo 1979 la rivoluzione khomeneista in Iran dette vita alla repubblica islamica, con l’eliminazione del corrotto regime dello scià Reza Pahlevi, grande amico dell’America. Gli Usa persero un punto di riferimento fondamentale nell’area, subendo anche l’affronto del sequestro di 52 diplomatici e funzionari a seguito dell’occupazione dell’ambasciata statunitense di Teheran da parte di ‘studenti’ iraniani armati. La crisi degli ostaggi, e la reticenza di Carter a usare la forza di fronte a un atto che si configurava come una violazione della immunità delle sedi diplomatiche, fece crollare la sua popolarità ai minimi storici. A peggiorare le cose vi fu, nel dicembre 1979, l’invasione dell’Afghanistan da parte dei sovietici, sia per evitare il contagio dell’integralismo religioso iraniano sia per riaffermare il controllo su un vassallo poco stabile.

La reazione di Carter fu una serie di sanzioni di peso non indifferente: la sospensione del processo di ratifica del trattato Salt II, erede del primo accordo tra Nixon e Breznev, il boicottaggio dei giochi olimpici di Mosca nel 1980 e la sospensione delle esportazioni di cereali dagli Usa all’Urss. Tali misure, molto pubblicizzate, non incontrarono però grande favore in patria, soprattutto da parte degli agricoltori del Mid-West.

A peggiorare le cose, nell’aprile 1980 il tentativo di liberare gli ostaggi a Teheran si risolse in un bruciante fallimento: due elicotteri USA si scontrarono in volo nel deserto iraniano causando otto vittime. Carter, entrato in carica sulla scia del bicentenario degli Stati Uniti, dialogante e diplomatico, venne travolto dagli eventi. La cosa più gentile che si diceva di lui era ‘Carter Who?’, la peggiore era chiamarlo ‘Pussy President’ il presidente senza spina dorsale. L’America voleva un leader e un nuovo sogno.