Il rapporto preparato da Mario Draghi per la Commissione Ue svolge un ragionamento semplice e lineare sul futuro dell’Europa. Dai dati emerge chiaramente che stiamo perdendo rapidamente posizioni nella competizione globale rispetto al resto del mondo e in particolare agli Usa e alla Cina.
Se non correremo ai ripari rapidamente, le conseguenze si vedranno nel tenore di vita dei cittadini europei. È chiaro dove si deve intervenire: si tratta di sostenere e sviluppare le industrie basate su tecnologie di avanguardia, di investire nella produzione di energia a minori costi, di affrontare il problema della sicurezza dell’Unione potenziando e coordinando fra loro le imprese che si occupano di difesa.
Il Rapporto indica la dimensione dello sforzo aggiuntivo richiesto: si tratta di investire almeno 750-800 miliardi di euro in più l’anno – una cifra che rappresenta il 4,5% circa del reddito nazionale dell’Unione. In sé non è un traguardo impossibile perché in Europa c’è un volume imponente di risparmi. Si tratta però non solo di mobilitarla a favore del settore privato, ma anche di assegnarne una quota alle istituzioni europee affinché la spendano in maniera centralizzata da Bruxelles.
Questo vuol dire trasferire competenze attualmente degli Stati nazionali, ampliare il bilancio europeo, creare un debito europeo. Draghi scrive che molto si può fare rivedendo e razionalizzando le attuali competenze di Bruxelles senza modificare i Trattati. Ma il Rapporto rende evidente che solo se si riuscirà rapidamente a fare un passo in avanti verso un governo europeo, l’Europa potrà sperare di colmare il divario che si sta aprendo. È qui il problema politico. Più o meno in tutta Europa si rafforzano i partiti che registrando il malessere degli elettori propongono come rimedio di ridurre le competenze federali dell’Europa. Mentre, per rispondere a quel malessere, avremmo bisogno di un’Europa più forte e più coesa.