Domenica 20 Luglio 2025
AGNESE PINI
Editoriale e Commento

Nella stanza del mondo non sono rimasti adulti ma solo leader disperati

La guerra Israele-Iran e l’ordine internazionale al collasso

Tel Aviv, una bandiera israeliana piazzata sopra le macerie dopo l'attacco iraniano

Tel Aviv, una bandiera israeliana piazzata sopra le macerie dopo l'attacco iraniano

Bologna, 15 giugno 2025 – Non è solo una guerra. Tra Israele e Iran va in scena la detonazione anche simbolica di un ordine internazionale ormai collassato su se stesso. E per questo ci fa così paura, e per questo rischia di sfuggire ancor più degli altri conflitti aperti (a Kiev, a Gaza) al controllo di un Occidente paralizzato, avvitato su stesso, smarrito e stanco. Sui cieli di Teheran e Tel Aviv è in corso un conflitto tra eserciti e visioni del mondo, tra mitologie e narrazioni escatologiche.

Così questa terza guerra ci fa paura, ancor più paura delle altre, perché ci mette davanti agli occhi con cinica evidenza che la modernità non è irreversibile. L’ordine razionale dei trattati, dei protocolli, delle diplomazie, può svanire in un attimo davanti alla potenza distruttiva di un drone, così come alla forza simbolica di un versetto biblico scritto su un biglietto infilato nel Muro del Pianto: Netanyahu ha ormai fatto della Bibbia una mappa operativa, ha chiamato l’attacco a Teheran “Leone che si rialza” (Rising Lion), ispirandosi a un brano dell’Antico Testamento che promette un futuro vittorioso per Israele.

L’Iran, frattanto, ha perso completamente il controllo del suo destino, aggrappandosi a un’ideologia ormai rifiutata dal suo stesso popolo. I giovani nelle strade di Teheran, gli studenti della Sharif University non difendono il regime. La Repubblica islamica agonizza nel disincanto, nell’odio interno, nella disperazione di un’intera generazione di ragazze e ragazzi. Ma resta l’incognita dall’assenza di alternative. Se il regime iraniano crolla, cosa lo sostituirà? Una repubblica laica, un ritorno monarchico, un’autorità militare di transizione? O il caos libico-siriano, il conflitto endemico tra etnie e fazioni, che trasforma una nazione in un campo di battaglia permanente?

E cosa diventerà d’altro canto Israele, se continuerà sulla strada della distruzione preventiva? Un piccolo impero solitario circondato da rovine, in perenne guerra, con una società lacerata?

Il mondo osserva e non interviene. Trump, ridicolizzato da Netanyahu, tace. L’Europa balbetta. L’Onu è assente. Il vuoto allora si riempie di simboli arcaici, in Iran come in Israele: bandiere rosse della vendetta issate sulle cupole di Qom, citazioni veterotestamentarie che legittimano massacri, versetti del Corano piegati a giustificare rappresaglie. Siamo tornati nel tempo mitico della guerra sacra.

Il pensiero razionale, che aveva costruito il diritto internazionale, i corridoi diplomatici, i consessi multilaterali, è stato scavalcato dai fondamentalismi. Non religiosi soltanto, ma anche nazionali, strategici, identitari.

Il mondo non ha più adulti nella stanza. Solo leader disperati che usano la guerra per rimanere in sella. E popoli stanchi, che si rifugiano in memorie gloriose per sfuggire all’umiliazione del presente.

La domanda non è se ci sarà o meno un nuovo conflitto globale. La domanda è se abbiamo ancora un linguaggio in grado di evitarlo. Se esistono ancora parole che non siano propaganda, slogan o minacce. Se esistono uomini e donne capaci di governare, non di sopravvivere.