Autodenuncia di un italiano privilegiato

Noi, figli degli anni del boom

I sindacati litigano con il governo sulle pensioni, su Quota 102 o 104, insomma litigano per tutelare gli interessi di chi oggi ha più o meno fra i 60 e i 64 anni. Ma siamo sicuri che sia quella la fascia di età che ha più bisogno di una battaglia sindacale? E non piuttosto i giovani, che fanno una fatica del diavolo a trovare lavoro e in pensione ci andranno forse a 80 anni, e con assegni miserrimi? Mi autodenuncio: sono nato il primo novembre del 1958 e faccio quindi parte della categoria più privilegiata della storia d’Italia, quella nata fra la fine degli anni Cinquanta e la metà dei Sessanta.

La nostra generazione è la prima della storia a non avere conosciuto una guerra; e, rispetto a quelli nati fra il 1946 e il 1958, neanche gli stenti del dopoguerra. Siamo la prima generazione ad aver conosciuto il benessere: il frigorifero, la lavatrice, la televisione, le vacanze al mare, i regali di Natale, l’automobile di papà. Siamo stati bambini negli anni del boom. L’Italia era lodata in tutto il mondo, era il Paese del 'miracolo economico'. Uno scrittore, Carlo Castellaneta, chiamò i Sessanta gli 'anni beati': e la musica leggera, i Carosello, il varietà di quel tempo trasmettono infatti un’immagine spensierata. Di ottimismo, di fiducia nel futuro.

Ho fatto l’esame di maturità nel 1977: il giorno dopo l’orale mi telefonò una grande banca per offrirmi un posto a tempo indeterminato, sedici mensilità. Dissi di no perché volevo fare il giornalista. Mi andò bene. Non avevo parenti giornalisti o politici e dovetti fare l’'abusivo' per qualche anno: ma a 26 anni, quando fui assunto dal Corriere della Sera, il mio primo stipendio mi fece sentire ricco: due milioni e 250mila lire nette. Siamo la generazione del posto fisso e dell’articolo 18. E i nostri figli? Fino a un certo punto hanno avuto anche più di noi. Ma quando si affacciano sul mondo del lavoro pagano le conseguenze del mondo che noi abbiamo lasciato. Si va avanti a stage e quando va bene a tempi determinati. L’indeterminato è un sogno: e comunque non più, come ai nostri tempi, un’assicurazione sulla vita. C’è già da ringraziare il cielo quando si è assunti con busta paga e contributi: per gli altri, se va bene, c’è la partita Iva. Di doman non c’è certezza. Questa è la vera emergenza di cui dovrebbero occuparsi la politica e i sindacati. I nostri figli chiedono almeno un po’ di quello che abbiamo avuto noi.