Il coronavirus e la peste, rileggetevi i Promessi Sposi

Poiché il tempo non manca, consiglio agli italiani ora reclusi in casa di leggere (o rileggere, nell’augurata ipotesi che l’abbian già fatto, almeno da ragazzi) il capitolo XXXI dei Promessi Sposi, quello sulla peste del 1630, affinché capiscano che tutto è nuovo solo a chi è nuovo al mondo; ma tutto è già visto per chi abbia già vissuto, o almeno studiato la storia. Anche allora, come oggi al tempo del Coronavirus, l’arrivo del flagello non fu creduto: "Sulle piazze, nelle botteghe, nelle case, chi buttasse là una parola del pericolo, chi motivasse peste, veniva accolto con beffe incredule, con disprezzo iracondo", scrive il Manzoni.

Le stesse autorità competenti non avevano, all’inizio, creduto. Nel tribunale della sanità "la premura era ben lontana da uguagliare l’urgenza (...) Abbiamo già veduto come, al primo annunzio della peste, andasse freddo nell’operare, anzi nell’informarsi (...) Quella grida per le bullette, risoluta il 30 d’ottobre, non fu stesa che il dì 23 del mese seguente, non fu pubblicata che il 29. La peste era già entrata in Milano".

Governanti poco reattivi, dunque. Ma che dire del popolo? Della loro inosservanza delle norme poi deliberate per scongiurare il contagio? Leggete queste righe e dite se non paiono quelle scritte ora nelle cronache delle feste affolate o degli assalti ai treni: "Ma (...) ciò che fa nascere un’altra e più forte maraviglia, è la condotta della popolazione medesima (...) chi non crederebbe che vi si suscitasse un movimento generale, un desiderio di precauzioni bene o male intese, almeno una sterile inquietudine? Eppure, se in qualche cosa le memorie di quel tempo vanno d’accordo, è nell’attestare che non ne fu nulla".

Quelli che dicono "è solo una brutta influenza?". C’erano anche allora: "Deridevan gli augùri sinistri (...) e avevan pronti nomi di malattie comuni per qualificare ogni caso di peste". E le fake news? C’erano pure allora, come quella degli untori nel Duomo di Milano. E le teorie complottiste? C’erano anche allora: "Erano tanto più disposti a trovarci qualche altra causa (...): arti venefiche, operazioni diaboliche, gente congiurata a sparger la peste, per mezzo di veleni contagiosi, di malìe". Riassume il Manzoni alla fine del capitolo: "In principio dunque, non peste, assolutamente no, per nessun conto (...) Poi febbri pestilenziali: l’idea s’ammette per isbieco (...) Finalmente peste senza dubbio", ma frutto di "venefizio e malefizio". "Non è, credo, necessario d’esser molto versato nella storia dell’idee e delle parole, per vedere che molte hanno fatto un simil corso".