Sabato 20 Aprile 2024

Coronavirus, troppi messaggi disperati. Il gusto inerte di dipingere tutto di nero

Il periodo non è dei più allegri ma mi domando se il bombardamento di notizie terrificanti al quale siamo sottoposti corrisponda effettivamente alla realtà. Lo dico da lettore più che assiduo (per lavoro) di giornali d’ogni tipo, di carta e online. Sembra ci sia una sorta di compiacimento nel dipingere un quadro non fosco, come in effetti è, ma apocalittico, quale invece non è, o almeno non ancora.  Ogni notizia che possa suscitare un po’ di ottimismo viene soffocata in culla da altre notizie, o meglio da supposizioni, che sembrano avere un solo scopo: quello di dirci che è bene non farsi illusioni.

Faccio qualche esempio. In questi giorni il numero degli “attualmente positivi” ha finalmente cominciato a scendere, le terapie intensive si stanno svuotando, cala anche il numero totale dei ricoverati, e soprattutto sentiamo dire dai medici che chi si presenta ora in ospedale ha sintomi decisamente meno gravi rispetto ai malati della primissima ondata. Ho accolto con sollievo ciascuna di queste notizie, ma immediatamente dopo a dominare sono state altre informazioni: che c’è un piano segreto del governo che parla di 800.000 morti; che "a gennaio arriverà una seconda ondata al Sud e sarà una catastrofe, mentre in tutto il Paese ci saranno violenti disordini" (chi lo dice? Uno studio di Forza Italia); che passato questo virus, ne arriverà “sicuramente” un altro, ben più letale. Anche nelle quotidiane paginate di Spoon River – e lo dico davvero con tutto il rispetto, non vorrei essere frainteso – sembra esserci, più che un vero cordoglio, una sorta di gusto della letteratura del dolore.

Paradossalmente, questa disperazione di cui trasuda l’informazione è forse figlia della nostra incapacità di vivere, e accettare, un’interruzione di quella che chiamiamo “normalità”. Ma per tutte le generazioni che ci hanno preceduto (tutte!) la “normalità” è stata quella di attraversare, almeno una volta, guerre, epidemie, pestilenze, carestie, miseria. Noi abbiamo invece la pretesa di un percorso netto dall’ostetrica al becchino: senza dolori, senza vacche magre. E così, quando viviamo un dramma, lo trasformiamo in tragedia. Aggiungerei che è inevitabile, se alla vita si dà solo l’orizzonte temporale che riusciamo a vedere: ma sarebbe un discorso troppo lungo. E allora mi limito a riportare il messaggio che mi ha inviato un amico romagnolo. È una frase di sua nonna: "Sle not, us farà de". È notte, si farà giorno.