Giovedì 25 Aprile 2024

Ma allora era vero. Toh, c'è rissa fra Lega e 5S

Dio ci protegga dall’ira dei timidi, diceva Andreotti. Giuseppe Conte si era presentato un anno fa agli italiani – i quali erano ignari della di lui esistenza in vita – come un professore perbene, ma appunto un po’ timido, o meglio intimidito dall’esuberanza dei due Dioscuri che lo tenevano in ostaggio. Ieri ha tirato fuori gli artigli. E se voleva dimostrare di non essere il vice di se stesso, c’è sicuramente riuscito.

In ventisei minuti di discorso, ha detto molte cose per dirne sostanzialmente una: il premier sono io. Come Re Giorgio VI riuscì a vincere la balbuzie per chiamare a raccolta il popolo all’inizio della guerra, così Conte ha vinto la propria attitudine al basso profilo per parlare agli italiani in un momento certamente meno drammatico, ma sicuramente non troppo allegro. Ci ha fatto simpatia. È stato garbato in un mondo di sgarbati ed elegante in un mondo di scamiciati; ha difeso le Istituzioni (quelle con la maiuscola) in un mondo di iconoclasti; ha annunciato di essere pronto a lasciare la propria poltrona in un mondo in cui tutti, la poltrona, la tengono ben attaccata al deretano; ha ammesso un proprio errore ("Ho sottovalutato l’effetto della campagna elettorale sull’attività di governo") in un mondo in cui nessuno sbaglia mai; ha detto "basta" alla politica dei selfie e dei like, richiamando l’importanza dei giornali (grazie).

E tuttavia, due dubbi aleggiano sul suo discorso. Il primo – e questo è colpa sua, sua di Conte voglio dire – riguarda la sede in cui esso è stato pronunciato. Visto il richiamo alle istituzioni, un discorso così si fa alle Camere, chiedendo subito la fiducia. Mai s’era vista una cosa del genere. Il secondo dubbio – e questa non è colpa sua – è sull’efficacia. L’appello è parso disperato: che Salvini e Di Maio lo ascoltino e lo seguano, non lo crede neppure lui. E qui, visto che Conte s’è tolto ieri tanti sassolini dalle scarpe, uno ce lo togliamo pure noi. Per ricordare che questo governo ha sempre ripetuto, per un anno e passa, che le divisioni al suo interno erano balle dei ’giornaloni’. Oggi convoca i giornalisti per ammettere che qualcosina di vero forse c’era.