La posta in gioco

L’attacco alla Banca d’Italia e, in second’ordine, a organismi di controllo come la Consob, è l’ultimo atto di una campagna elettorale mai finita. O, se preferite, il primo calcio negli stinchi della partita di ritorno populismo contro tutti. In fondo, se ha funzionato il 4 marzo 2018, perché non riprovarci? Solo che tirare martellate alle istituzioni per racimolare consenso è un gioco pericoloso in un momento delicatissimo. L’autonomia e l’indipendenza della banca centrale – garantita tra l’altro dai trattati internazionali – sono da sempre nel mirino della politica di ogni colore. Ma sono un valore da difendere.

Specie in un paese che deve piazzare miliardi di debito pubblico e ha bisogno di credibilità internazionale. La spia rossa che si è accesa sul cruscotto della produzione industriale è solo l’ultimo segnale d’allarme di una serie iniziata con l’entrata dell’Italia nella recessione tecnica. Il governo continua a mostrarsi fiducioso degli effetti della legge di bilancio, ma è evidente che lo scenario è cambiato in modo violento: la frenata globale colpisce e fa più male a chi è più debole. L’urgenza economica dovrebbe riportare tutti coi piedi per terra. Esige un cambio di passo che è lo stesso chiesto dal mondo del lavoro.

L’Italia rimane la seconda manifattura d’Europa, risultato dovuto a medie imprese capaci di stare sul mercato globale, competere e vincere. Imprese che sono collocate, nella stragrande maggioranza dei casi, al Nord. Lungo il triangolo che unisce Milano, Venezia e Bologna. Centri di regioni che premono sul governo per dare corpo a un’autonomia più forte e completa dell’attuale. Ciascuna, con le proprie ricette: la Lombardia di Attilio Fontana, il Veneto di Luca Zaia, l’Emilia-Romagna di Stefano Bonaccini. Sono le locomotive del Paese. Guai a impedirgli di correre più veloci, non possiamo permettercelo. Quanto alle responsabilità, il declino italiano non è iniziato il 4 marzo, siamo da tempo nelle ultime posizioni. Risalire è possibile, ma il percorso richiede tempo e vista lunga: risorse più scarse sul mercato della politica ai tempi dei social. Meglio andare all’arrembaggio dell’ultimo «mi piace». Anche a costo di sfasciare le istituzioni.