Il 25 aprile, dove vola Mattarella

Abbiamo, per fortuna, un presidente della Repubblica che vola più alto di tante polemiche politiche di questi giorni (e ahimè di questi anni). Il discorso pronunciato ieri da Sergio Mattarella a Vittorio Veneto non è solo una lezione di storia: è anche e soprattutto una lezione di stile, di visione politica, di impegno civile. Tutte cose che oggi sono, purtroppo, passate di moda. In un mondo che brucia tutto con un tweet o con un post, in un mondo in cui un’avventura politica si consuma in pochi mesi, Mattarella ci ha ricordato «il dovere civile e morale della memoria». In un mondo in cui troppo spesso si parla di rovine (lasciate sempre dai governi precedenti), Mattarella ci ha ricordato le rovine vere, quelle ereditate da una guerra mondiale che lasciò sul campo cinquanta milioni di morti. In un mondo – quello dei politici di oggi – in cui si urla sempre che c’è tutto da ricostruire perché tutto è corrotto e tutto fa schifo, il nostro capo dello Stato ha ricordato che cosa è una vera ricostruzione: quella che fecero i nostri nonni e i nostri padri. I nostri vecchi, insomma. Oggi, in nome di un giovanilismo fine a se stesso, c’è sempre qualcuno da rottamare: ma la verità è che se stiamo ancora in piedi lo dobbiamo alle generazioni che ci hanno preceduto. Fra queste generazioni, c’è quella dei politici della cosiddetta Prima Repubblica. Mattarella viene da lì. E non stava, nella Dc della Prima Repubblica, fra le prime fila; stava nelle seconde, se non nelle terze. Ma accostato alla maggior parte dei politici urlanti e litiganti di oggi, Sergio Mattarella si staglia come un gigante. Ieri ha parlato dei «simboli amati»: il tricolore, l’inno nazionale. Ha raccontato di come «dalle rovine nacque una nuova Italia». Ha parlato di uguaglianza fra le persone, ripudio della guerra, libertà di espressione. Ha sottolineato quanto sia nefasta «l’ossessione del nemico». Ha parlato dell’altro ieri per parlarci dell’oggi, perché non è vero che tutto cambia, ci sono cose che restano immortali. E perché «oggi come allora», ha detto, «c’è bisogno di uomini liberi, che non chinano la testa». Di uomini, appunto.