Giovedì 25 Aprile 2024

Fuga di cervelli: molti sgravi fiscali e pochi rimpatri

Dal 2010 oltre un milione di italiani si è trasferito all'estero, le agevolazioni per chi decide di tornare hanno funzionato solo in parte

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Negli ultimi dieci anni quasi un milione di italiani si è trasferito all’estero, cancellandosi dalle anagrafi comunali. Il fenomeno ha riguardato soprattutto i giovani e i lavoratori qualificati. Per descriverlo è diventata di moda un’espressione: “Fuga di cervelli”. I dati sono impressionanti: nel 2020, nonostante il flusso verso l’estero sia stato ostacolato dalla pandemia, oltre 112mila italiani hanno spostato la propria residenza fuori dai confini nazionali. Negli anni precedenti i numeri erano ancora più alti. Per frenare la tendenza, i governi che si sono succeduti hanno cercato di favorire il rientro di lavoratori e ricercatori introducendo sostanziosi sgravi fiscali. Nello specifico, la normativa prevede che chi possiede una laurea universitaria e torna in Italia dopo due anni passati all’estero può beneficiare di alcuni vantaggi. Per i lavoratori rimpatriati, il reddito imponibile è abbattuto per cinque anni del 70% e del 90% se la residenza viene trasferita in una regione del Sud. Inoltre, non ci sono limiti di età e l’agevolazione può essere estesa sotto certe condizioni, come l’acquisto di una casa o la presenza di figli minorenni. Per quanto riguarda invece i docenti o i ricercatori, in questo caso l’esenzione è al 90% per un periodo di 6 anni.

I due strumenti hanno funzionato abbastanza bene, anche se non è possibile trarre conclusioni univoche, almeno secondo l’Osservatorio sui conti pubblici dell’università Cattolica. “Dal 2017, il numero di docenti e ricercatori che beneficiano degli sgravi introdotti per questo gruppo (ricavabile dalle dichiarazioni fiscali) è rimasto stabile, calando però nell’anno di imposta 2020”. Siccome il regime fiscale non ha subito modifiche - l’esenzione infatti è rimasta al 90% da quando è stata introdotta nel 2010 - per i professori e i ricercatori, “non è possibile trarre una conclusione”. Una dinamica diversa, invece, è stata registrata per i lavoratori che hanno avuto accesso alle agevolazioni. Per questa categoria, il numero di rimpatri, si legge nello studio dell’Ocp, “è più che raddoppiato tra il 2018 e il 2020, forse a seguito delle migliori condizioni introdotte dal decreto Crescita del 2019”. Decreto che ha aumentato la parte di reddito non tassabile dal 50 al 70% e ha introdotto la possibilità di estendere la durata del beneficio.

“Il forte afflusso registrato dopo l’approvazione del decreto Crescita (del 2019, ndr)”, si legge nello studio dell’Ocp, “suggerisce che queste agevolazioni abbiano avuto un effetto”. Dal 2011 al 2020, scrive l’Ocp, i rimpatri di laureati italiani sono aumentati da 4.100 a 13.700 all’anno, con un incremento particolarmente forte per chi ha meno di quarant’anni: da 2.300 a 8.500 unità. Tuttavia, nello stesso periodo, anche le partenze sono cresciute. I laureati che hanno deciso di abbandonare il Paese sono aumentati da 7.700 a 31mila l’anno, mentre il saldo migratorio (la differenza tra rimpatri ed espatri) è peggiorato del 388% e del 489% per i laureati più giovani. Inoltre, tra il 2002 e il 2016 circa 11.000 ricercatori hanno lasciato l’Italia, il numero più elevato tra i Paesi dell’Unione Europea. Nonostante la Brexit, la destinazione preferita rimane il Regno Unito. Il Paese è stato scelto dal 27% del totale dei laureati con meno di quarant’anni espatriati nel 2020. Un numero in costante crescita, con l’eccezione del 2019, da dieci anni: nel 2011 soltanto il 15% abbandonava l’Italia per andare nel Regno Unito. Al secondo posto delle mete più ambite c’è la Germania, che ha accolto nel 2020 il 10% dei laureati italiani espatriati. Secondo lo studio dell’Ocp, a pesare nelle decisioni di docenti e ricercatori è una congerie di fattori, tra i quali il regime fiscale ricopre un ruolo marginale. Infatti, i motivi che spingono le persone più istruite a cercare fortuna altrove sono diversi. Tra questi i più importanti riguardano la maggiore stabilità del posto di lavoro all’estero, la scarsa meritocrazia del sistema universitario italiano e una bassa “fiducia nelle prospettive di carriera in termini di opportunità e velocità per raggiungerle”.