Venerdì 1 Novembre 2024
LUCA RAVAGLIA
Economia

Tfr, quanto mi costi. L’inflazione fa ‘esplodere’ i costi per le piccole e medie imprese

Lo studio della Cgia: il costo aggiuntivo è di 6 miliardi di euro, per una media di 1.500 euro in più a dipendente

Rivalutazione del Tfr, per le pmi costo aggiuntivo di 6 miliardi

Rivalutazione del Tfr, per le pmi costo aggiuntivo di 6 miliardi

Roma, 14 ottobre 2023 – Le conseguenze dell’inflazione esplosa lo scorso anno porteranno benefici futuri sugli importi delle liquidazioni a favore dei lavoratori dipendenti che cesseranno il loro rapporto con le rispettive aziende di riferimento, ma già da ora stanno causando una ‘stangata’ che ricade sulle spalle del mondo imprenditoriale. Lo rilevano i dati ricavati dall’ufficio studi della Cgia, dai quali è emerso che il lievitare dei prezzi ha causato, tra le tantissime altre cose, anche una forte rivalutazione del trattamento di fine rapporto che quest’anno alle piccole e medie imprese potrebbe costare mediamente 1.500 euro in più a dipendente, provocando un extracosto per le realtà con meno di 50 dipendenti stimato in almeno 6 miliardi di euro.  

L’impatto sulle piccole e medie imprese

Il nodo della questione riguarda la possibilità di trasferire il proprio Tfr in un fondo di previdenza complementare oppure di ‘lasciarlo’ in azienda. Una buona parte dei dipendenti che lavora nelle realtà medio piccole opta da sempre per la seconda ipotesi. Ogni anno, quindi, l’ammontare del Tfr accantonato viene rivalutato, così come previsto dalla legge, dell’1,5%, importo al quale si aggiunge il 75% della variazione dell’inflazione conseguita a dicembre rispetto allo stesso mese dell’anno precedente. Restando all’attualità, Nell’elaborazione di questi parametri, il dato dirimente è il +11% registrato tra il dicembre 2022 e lo stesso mese 2021.

Quattro ipotesi di studio

In base a questi parametri, nel caso di un lavoratore che timbra il cartellino da 5 anni presso la stessa azienda con meno di 50 addetti, la rivalutazione del Tfr provocherà nel bilancio 2023 dell’impresa un incremento dei costi pari a 593 euro rispetto a quanto è stato riconosciuto al proprio dipendente sempre con questa operazione nel periodo che va dalla sua assunzione fino al 2020. Se invece l’anzianità lavorativa è di 10 anni, l’aggravio sarà di 1.375 euro. Con 15 anni di servizio l’incremento salirà ulteriormente arrivando a 2.003 euro, mentre nel caso in cui il lavoratore abbia maturato 20 anni di anzianità, l’extracosto aziendale toccherà i 2.594 euro.  

Differenze tra piccole e grandi aziende

Di norma i lavoratori dipendenti delle piccole imprese hanno un’anzianità di servizio più contenuta rispetto a quella dei colleghi occupati nelle realtà più grandi. Imprese, queste ultime, che in virtù della corresponsione di retribuzioni più ‘pesanti’ presentano, tendenzialmente, un turn-over meno accentuato rispetto alle aziende con dimensioni minori. Serve inoltre rimarcare che il numero dipendenti delle piccole aziende che hanno trasferito il Tfr nei fondi pensione è contenutissimo.  

Extracosto da 6 miliardi

Ipotizzando che coloro che hanno scelto di non trasferire il proprio trattamento di fine rapporto in un fondo pensione complementare siano 4,3 milioni (il 66% circa del totale) e abbiano un’anzianità di servizio media pari a 10 anni, la variazione della rivalutazione del Tfr rispetto alla media riconosciuta al dipendente nel periodo che va dalla sua assunzione al 2020, è stata quantificata in almeno 6 miliardi di euro. Insomma, per il milione e mezzo di imprese con meno di 50 addetti presenti in Italia, la fiammata inflazionistica avrebbe comportato, in materia di Tfr, un’impennata di costi che, abbinata all’aumento dei tassi, stanno mettendo in seria difficoltà gran parte del sistema produttivo del nostro Paese.  

Le conseguenze sugli imprenditori

Cgia, nella nota diffusa sull’argomento, definisce il Tfr come una forma di salario differito. Se il dipendente decide di ‘lasciarlo’ in azienda, le conseguenze finanziare possono essere negative, così come è successo quest’anno, ma è comunque auspicabile per l’impresa che il dipendente mantenga questa decisione. Infatti, per fronteggiare la mancanza di liquidità che da sempre contraddistingue la quotidianità di queste realtà, avere a disposizione delle risorse aggiuntive, sebbene non siano ‘proprie’, è importante. Soldi che, comunque, l’imprenditore ha in ‘prestito’ e deve corrispondere al proprio dipendente quando quest’ultimo durante il periodo lavorativo lo richiede o al termine del rapporto di lavoro.  

Differenze territoriali

Cgia ipotizza che la situazione più critica abbia interessato il Mezzogiorno e in particolar modo Vibo Valentia, dove il 91% delle imprese con dipendenti ha meno di 50 addetti. Seguono Trapani (89,3%), Agrigento (88,7%), Nuoro (88,3%), Campobasso (86,1%), Prato (85,7%), Grosseto (85,6%), Cosenza (85,1%), Imperia (84,7%) e Barletta-Andria-Trani (84,3%).