Intesa storica tra i grandi del G7. "Tassa globale sulle multinazionali"

Ma ci vorrà tempo e l’ok (difficile) di Cina e Russia. Da Amazon a Google: ok, anche se pagheremo di più

Gli incassi in Europa con la Global Tax

Gli incassi in Europa con la Global Tax

Gli aggettivi più usati per definire l’accordo sulla tassazione globale delle multinazionali, raggiunto al G7 di Londra dai ministri dell’Economia dei Grandi, sono "storico" ed "epocale". La minimum tax planetaria per contenere le pratiche fiscali elusive delle imprese mondiali, a cominciare dai giganti del web, i Big Tech, è fissata ad "un’aliquota globale minima di almeno il 15%, applicata Paese per Paese". Ma non basta. Secondo il Cancelliere dello Scacchiere inglese, Rishi Sunak, autore dell’annuncio e uno dei registi dell’intesa, "le maggiori imprese globali, con margini di profitto di almeno il 10%, vedranno il 20% di tutti gli utili al di sopra di tale soglia riallocato e tassato nei Paesi dove effettuano vendite". Il che significa, almeno formalmente, la creazione di un nuovo sistema tributario planetario fondato su due "pilastri". Le multinazionali, obiettivo primario della riforma, dovranno pagare di più in ogni singolo Stato nel quale fanno profitti ("pillar one"), ma dovranno comunque corrispondere una "tassa minima" globale (quella del 15% proposta da Biden) che costituisce il "Pillar two". Con la conseguenza, però, che i singoli Stati dovranno rinunciare alle loro web tax nazionali, minacciate o introdotte. In sostanza, un compromesso tra le due sponde dell’Atlantico.

Sul piano concreto, una soluzione di questa portata, se attuata subito, porterebbe all’Italia un incremento di gettito fiscale di 2,7-3 miliardi nel solo 2021 (che salirebbe a 7,7 con aliquota al 21% 11 miliardi con aliquota al 25%). In tutta l’Europa le entrate crescerebbero di circa 48-50 miliardi con la tassazione al 15%. Si comprende, dunque, l’entusiasmo dei vertici di Bruxelles (dalla Von der Leyen a Michel a Gentiloni, che ha avuto un ruolo-chiave per la conquista del compromesso), come anche l’euforia dei ministri delle Finanze dell’Unione (dal francese Le Maire al tedesco Scholz, al nostro Daniele Franco) e di quello inglese di fronte al risultato ottenuto con l’intesa di Londra. Fino al premier Mario Draghi che parla di "passo storico verso una maggiore equità e giustizia sociale per i cittadini". Altrettanto soddisfatta è la segretaria al Tesoro Usa, Janet Yellen, che insiste sull’"impegno senza precedenti che metterà fine alla corsa al ribasso nella tassazione aziendale, assicurando equitàper i lavoratori".

Parole di miele anche dai colossi che verrebbero colpiti dal nuovo regime, da Google ad Amazon, ma che scamperebbero la minaccia delle web tax nazionali. Da Facebook fanno sapere addirittura di volere "che il processo di riforma fiscale internazionale abbia successo", nonostante "ciò potrebbe significare che pagheremo più tasse, e in luoghi diversi". All’apparenza, dunque, la sola voce critica è quella del ministro delle finanze irlandese Paschal Donohoe: dall’Irlanda, beneficiaria netta della situazione attuale per la presenza delle sedi europee dei giganti digitali, fa sapere che l’accordo dovrà necessariamente soddisfare le esigenze dei "piccoli e grandi Paesi, sviluppati e in via di sviluppo", ricordando che i Paesi dell’Ocse sono 139. Un accenno che, però, ha il valore di un macigno e da solo fa capire che la strada per una tassazione globale è lunga e tutta da esplorare. Innanzitutto perché il protocollo del G7 andrà condiviso al G20 in programma a Venezia per luglio, ma anche perché servirà il via libera in ambito Ocse. Insomma, ci vorranno anni. E, soprattutto, ci vorrà che siano d’accordo Cina (che non ha il minimo interesse) e Russia e che anche Stati Uniti ed Europa abbiano gli stessi riferimenti di base: per fare un esempio, per Biden il primo pilastro (più soldi in ogni stato dove le società operano) riguarderebbe un centinaio di companies, delle quali metà Usa e solo otto hi-tech, lasciando fuori banche e società minerarie. Per l’Ocse invece l’obiettivo del «pillar one» sarebbero almeno 2.300 multinazionali.