
Sfilata Versace (Ansa)
New York, 19 settembre 2023 – Ha debuttato nel mondo del lusso con l’obiettivo, neanche troppo segreto, di far concorrenza ai giganti europei, quelli dai nomi talmente altisonanti che solo pronunziarli fa tremare i polsi: Lvmh, Kering, Richemont. La risposta statunitense ai colossi che attualmente dominano il mercato del fashion di alta gamma si chiama Tapestry: già proprietario di tre marchi dall’identità spiccatamente americana (Stuart Weitzman, Coach e Kate Spade), il gruppo newyorkese, guidato dalla Ceo Joanne Crevoiserat, ha recentemente annunciato l’acquisizione di Capri holding, società statunitense che controlla Micheal Kors, Jimmy Choo e, soprattutto, l’italiana Versace.
I numeri dell’acquisizione
Se 8,5 miliardi di dollari è la quota sborsata da Tapestry per assicurarsi Capri holding, 12 miliardi è il fatturato che Tapestry prevede di raggiungere con questa acquisizione. Numeri che, secondo gli addetti ai lavori, le consentiranno di imporsi nel comparto del lusso: un mercato complesso e in costante evoluzione, nel quale, per competere, sono sempre più necessari investimenti milionari. Le ingenti somme servono a sostenere una rete distributiva globale, una scala produttiva solida e la continua ricerca, da un lato, sulla digitalizzazione e, dall’altro, sul ripensamento della filiera in chiave sostenibile.
Le ragioni dell’avanzata transalpina
E’ la strategia che ha reso invincibili, finora, i colossi transalpini: divenuti sempre più forti a suon di acquisizioni, vantano ora fatturati da capogiro. E si rafforzano sia producendo una crescita organica superiore alla media, sia ‘facendo shopping’, cioè rilevando di continuo altri marchi sul mercato. Il metodo applicato, ad esempio, da Lvmh, guidato dal miliardario Bernald Arnault e proprietario, oltre che di brand di alta moda come Louis Vuitton, Christian Dior e Fendi, di marchi di orologi come Tag Heuer, di gioielli come Tiffany & Co., di vini e distillati come Moët & Chandon e Veuve Clicquot: nel solo 2022, il gruppo ha fatto registrare ricavi pari a circa 80 miliardi di dollari.
E gli stilisti italiani?
Le ambizioni di Tapestry hanno messo definitivamente a nudo i limiti che contrassegnano la moda italiana: se, negli ultimi dieci anni, le griffe di casa nostra hanno saputo tenere il passo, pur muovendosi in un contesto difficile e caratterizzato da una forte competitività, dall’altra crescono poco e perdono quote di mercato. Dal 2014 al 2022, il fatturato complessivo delle prime 15 aziende di moda italiane è cresciuto ‘solo’ di 4 miliardi, passando da 14 a 20 miliardi di euro: nello stesso periodo, le prime tre aziende francesi sono passate da 24 a ben 75 miliardi di euro, triplicando il proprio giro d’affari.
Il made in Italy resta appetibile, al punto che nessuna azienda straniera - nei tessuti, nella sartoria, nella manifattura, nella pelle e nelle calzature – si sognerebbe di metterne in discussione l’eccellenza produttiva e gli stessi gruppi esteri continuano a rivolgersi a fornitori e contoterzisti locali. Tuttavia, gli osservatori ritengono che ciò che manca all’Italia, in questa fase, è un ‘polo del lusso’ vero e proprio, diversificato e presente in vari segmenti di mercato, con prodotti differenti (dai profumi agli occhiali, dai cosmetici alle borse). Un tentativo apprezzabile, in questo senso, è quello compiuto dalla holding Otb di Renzo Rosso, patron di Diesel: attorno ai famosi jeans, Rosso è riuscito a costruire un gruppo di marchi, alcuni dei quali salvati dalla crisi grazie alle economie di scala e a un progetto complessivo di ristrutturazione (uno su tutti, Jil Sander).
La strategia vincente: far parte di un gruppo
Periodi di difficoltà e incertezza come quello della pandemia hanno lasciato in eredità una lezione: un brand, per quanto di successo, riesce faticosamente ad andare avanti da solo. Far parte di un gruppo aiuta non solo per la maggior disponibilità di capitali e risorse da investire, ma anche per far fronte a eventuali cali e compensare, così, la momentanea debolezza di un marchio con la forza di un altro. Lungi dall’essere limitato al solo mondo della moda, un polo del lusso italiano potrebbe aggregare diverse eccellenze del made in Italy, dall’automotive alla nautica, dagli occhiali all’arredamento, proprio sul modello ‘onnicomprensivo’ dei giganti francesi.