Bruno
Villois
arrivo di Mario Draghi a palazzo Chigi si è rivelato subito carburante per la nostra economia. Lo spread è sceso di oltre il 20% e Piazza Affari ha guadagnato l’8%, trascinata dai titoli delle banche, con un recupero di oltre 12 punti (quasi un record), e da quelli delle partecipate dello Stato. Il settore è alle prese con alcuni consistenti problemi: il rischio di esplosione degli Npl e l’incidenza che avrebbe sulle patrimonializzazioni bancarie relativamente solide, l’impossibilità di distribuire dividendi per premiare gli
azionisti, penalizzati da anni di corsi borsistici con cali pesanti, la ristrutturazione del modo di fare credito, i tassi passivi sulla linea dello zero e gli esuberi di personale. Inoltre, c’è l’esigenza di avere almeno un altro gigante, dopo Intesa e Unicredit, in grado di sostenere
la clientela business, con obiettivi primari rivolti all’export.
Le nuove fusioni, infatti, si sono interrotte, con le sole Bpm e Banca Popolare di Verona a farle e tutte le altre
Popolari alla finestra. E c’è ancora da risolvere il caso Mps, oltre a quello, più piccolo, di Carige, prossimo a farlo. Urgono soluzioni: il compito di trovarle, a quello che è stato il banchiere pubblico più illuminato del secolo, a cui l’Europa e la sua moneta debbono gratitudine infinita. Un conclamato prestigio grazie al quale Draghi dovrà
imporre decisioni che i suoi predecessori non hanno saputo assumere.
È augurabile che lo faccia, ad avvantaggiarsene sarà l’intero sistema socio-economico. Banche più forti, indipendenti e guidate da manager di alto profilo saranno indispensabili per affrontare e superare i rischi del dopo pandemia e per schierare l’economia
italiana ai vertici di quella europea.
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