di Bruno
Villois
La proposta di una global tax avanzata dal dipartimento del Tesoro americano sta prendendo piede nell’Ocse, con forte sostegno della Comunità Europea. L’aliquota minima viene prevista nel 15% che, pur non essendo certo elevata in ragione dei faraonici risultati delle società internet d’Oltreoceano, vale comunque molte decine di miliardi a livello globale. Le cinque prime società per capitalizzazione del mondo – Apple, Google, Amazon, Microsoft e Facebook – realizzano utili per circa 200 miliardi di dollari, parte di questi sono già tassati negli Usa, ma una gran parte sfugge a tassazioni di competenza di una moltitudine di altri Paesi, tra i quali primeggia l’Europa. Se ai 5 monstre si aggiunge un altro cospicuo numero di imprese, sempre essenzialmente americane, si capisce facilmente che il non tassato è esorbitante.
Il limite ad applicare una tassazione globale è l’incognita della reazione del Patto dei tredici, costituito dalla Cina con i maggiori Stati di Asia e Pacifico: proprio da quelle parti si produce una percentuale elevata di quanto poi venduto dai top player Usa.
A determinare il dubbio è l’incidenza di una tassazione certa e globale, seppure ridotta, sui margini dei veri produttori-assemblatori, nel caso i top player ritenessero di gravarne parte su di loro e soprattutto quale possa essere la risposta delle major cinesi, ma anche giapponesi e coreane.
Che sia giusto far sì che ogni impresa sia soggetta a tassazione dei propri profitti è cosa corretta, ma adottare dopo anni la soluzione globale, quando questi colossi sono diventati così potenti da poter cambiare le sorti del mondo, è perlomeno bislacco.
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