La Federal Reserve ha confermato ieri il livello dei tassi al 5,25-5,50%, il livello più alto dal 2001, e le Borse applaudono. Milano, la migliore d’Europa,ha messo a segno un balzo dell’1,64%, seguita da Francoforte (+0,75%) e da Parigi (+0,67%). Il governatore Jim Powell, però, si è lasciato la porta aperta per un nuovo rialzo a novembre. La stima è un picco al 5,6% a fine 2023 e poi un calo al 4,6% nel 2024. Le aspettative di inflazione, infatti, sono ancora relativamente alte: attorno al 3,4% per quelle a un anno. La stretta, insomma, fa fatica a "mordere". Il Pil continua a crescere e la Fed ha addirittura raddoppiato le stime per il 2023 dall’1 al 2,1%. Un buon segno in una situazione normale, ma se la lotta all’inflazione passa necessariamente da un rallentamento dell’attività economica, il segnale potrebbe avere anche un significato diverso. I salari continuano a crescere veloci, mentre la disoccupazione è vicina ai minimi pluriennali. La Federal Reserve è molto preoccupata che, in questa situazione, le retribuzioni possano crescere più della produttività, alimentando l’inflazione.
Le recenti rivendicazioni salariali, giustificate dal punto di vista dei lavoratori, che vedono erodere il potere d’acquisto con una limitata possibilità di recuperare, sono un ulteriore elemento di inquietudine (e un argomento in più per chi crede che la lotta all’inflazione, sempre dolorosa, dev’essere rapida e decisa). I rendimenti continuano a salire lentamente, anche se manifestano da tempo quell’inversione tipica delle fasi di disinflazione, mentre il cambio effettivo, pur al di sopra della media di lungo periodo, continua a muoversi in un corridoio ristretto. È un quadro, a grandi linee, che giustifica quindi le attese di un nuovo rialzo a novembre.
Elena Comelli