Mobilità, Italia in ritardo nella transizione ‘green’

Mobilità, Italia in ritardo nella transizione ‘green’

Mobilità, Italia in ritardo nella transizione ‘green’

PER L’INDUSTRIA italiana dell’automotive è una ‘spada di Damocle’ annunciata, ma non per questo meno pericolosa. La decisione del Parlamento europeo di vietare la vendita di autoveicoli alimentati a benzina, diesel, GPL e perfino ibridi a partire dal 2035 ha alzato il velo sulla scarsa capacità di lobbying del sistema Italia a Bruxelles e Strasburgo, ma anche (soprattutto) sul ritardo tecnologico dell’industria italiana nella transizione verso la mobilità sostenibile. Il provvedimento era ampiamente previsto perché rientra nel pacchetto "FIT for 55" presentato dalla Commissione Ue già nel luglio 2021, che si pone i due ambiziosi obiettivi di tagliare le emissioni inquinanti nell’Unione del 55% rispetto al 1990 entro il 2030 e di raggiungere la neutralità climatica entro il 2050. E più ampiamente, questa decisione è una pietra miliare della strategia – annunciata fin dal suo insediamento nel novembre 2019 – dalla Commissione Von der Leyen (nella foto a destra) di porsi alla guida dell’intero pianeta nel processo di trasformazione green delle nostre produzioni e delle nostre abitudini. Già due anni e mezzo fa, dunque, la strategia che ha portato a questa misura radicale era nota. Potevano essere incerte soltanto radicalità e rapidità della sua applicazione, non certo l’obiettivo finale: nel mondo ideale avrebbe dovuto determinare quindi switch radicali dei piani industriali dei player del settore automotive.

Evidentemente, ciò non è accaduto per tutti. Anfia, l’associazione che rappresenta la filiera dell’industria automobilistica italiana, denuncia oggi "70mila posti di lavoro a rischio nell’industria dell’automotive legata alla produzione di componenti che non serviranno per l’elettrico": la produzione dei veicoli elettrici e dei loro componenti non sarebbe in grado di compensare la perdita di posti di lavoro, causata dalla morte progressiva delle produzioni tradizionali. Anche perché la produzione di batterie per le auto elettriche avviene ancor oggi, in grandissima parte, lontano dalle nostre latitudini. Non a caso Giorgio Marsiaj, presidente dell’Unione Industriali di Torino, ha definito la decisione europea "un durissimo colpo" per il settore automotive.

Sotto questo profilo, è utile ma rappresenta soltanto un palliativo la deroga a favore dei piccoli produttori di auto (da mille a 10mila vetture l’anno) e furgoni (da mille a 22mila all’anno) ottenuta dagli europarlamentari italiani mediante l’approvazione dell’emendamento ‘salva Motor Valley’: per i più piccoli, lo stop ai veicoli termici scatterà dal 2036. Raccogliendo le preoccupazioni italiane (e probabilmente quelle francesi), e nonostante la serenità dei produttori tedeschi che sono partiti prima negli investimenti sulla mobilità elettrica, perfino l’associazione europea dei produttori di automobili ha espresso preoccupazione per il voto del Parlamento europeo, definito "prematuro", perché "la trasformazione del settore dipende da molti fattori esterni che non sono completamente nelle sue mani".

È tutto perduto per le produzioni nostrane? No, perché la decisione del Parlamento europeo non è "cogente" in quanto dovrà essere negoziata con il Consiglio: ovvero con gli Stati membri, che stanno già affilando i coltelli per spuntare modifiche. La versione finale conterrà, ad esempio, uno slittamento della deadline del 2035, oppure una rivalutazione dell’ibrido? Non è da escludere. Comunque vada, il terreno di gioco per l’industria italiana dell’automotive rimarrà terribilmente insidioso.

[email protected] @FFDelzio

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