Mercoledì 24 Aprile 2024

CLIMATE CHANGE, IL REBUS COP26 E L’ULTIMA CHIAMATA DA GLASGOW

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COME SI FA ad avviare una rivoluzione industriale, economica e sociale di importanza storica a livello globale, mettendo insieme nella stessa squadra di ‘rivoluzionari’ circa 200 Paesi che hanno industrie, interessi, convinzioni politiche estremamente diversi tra loro? È il grande rebus della COP 26, il summit globale delle Nazioni Unite dedicato alla lotta ai cambiamenti climatici. Sotto la pressione dell’opinione pubblica globale e di dati unanimemente considerati drammatici sul climate change, l’eventuale ‘fallimento’ della conferenza non è un’opzione disponibile. Ma pochi possono affermare (senza tema di smentite) di essere davvero impegnati per contenere rapidamente le emissioni.

Un paradosso ben sintetizzato da due affermazioni pesanti. La prima è quella del premier britannico Boris Johnson, che ha aperto la conferenza affermando che "siamo a un passo dall’Apocalisse". La seconda è il j’accuse a sorpresa del nostro premier Draghi, uno dei pochi leader politici con visione globale in questa complessa fase della storia dell’umanità, che rappresenta oggi un’Unione Europea votata alla sostenibilità in un mondo che (finora) non l’ha seguita. "I veri Paesi innocenti sono pochissimi, mentre i colpevoli sono tantissimi" ha dichiarato Mario Draghi. Se infatti il Vecchio Continente rappresenta oggi solo l’8 per cento delle emissioni inquinanti a livello globale, la Cina si posiziona in modo radicalmente diverso con il 28 per cento, mentre gli Stati Uniti producono il 17 per cento.

Eppure a Glasgow fa rumore più chi non c’è, rispetto a chi è presente. Pesa molto l’assenza del presidente cinese Xi Jinping, la cui mancanza rischia da sola di vanificare la corsa del mondo verso la sostenibilità. Nel discorso scritto inviato ai partecipanti, che ha deluso molti, il leader cinese si è limitato a ribadire gli impegni già presi in occasioni precedenti: la promessa cinese è di raggiungere l’obiettivo di azzerare le emissioni soltanto nel 2060. Stesso impegno per la Russia di Putin, anch’egli assente come il numero uno brasiliano Bolsonaro e i leader di altri paesi di rilievo come Portogallo, Messico, Sudafrica e Turchia.

Il premier indiano Modi ha annunciato addirittura, per il colosso da lui guidato, un ulteriore slittamento della scadenza fino al 2070. Fin dall’apertura dei lavori, in sostanza, il rischio di ‘stallo’ della conferenza di Glasgow è già evidente e concreto. Eppure, perfino nella palude di questo ventiseiesimo summit globale dedicato al clima qualcosa si muove. Accordi rilevanti – con intese a geometria variabile che tuttavia non comprendono i principali Paesi inquinatori – sono stati raggiunti in materia di energia. Oltre 40 Paesi, tra cui l’Italia, e decine di organizzazioni hanno concordato di non utilizzare più il carbone per la produzione di energia elettrica, impegnandosi ad abbandonarlo entro la fine degli anni Trenta. La forte riduzione nei consumi di questo combustibile fossile era uno dei principali obiettivi della COP26 ed è considerata molto importante per mantenere il pianeta nei limiti di un aumento della temperatura media globale di 1,5 °C entro la fine del secolo, come previsto dagli accordi di Parigi del 2015.

Segnali interessanti sono giunti anche dalla finanza mondiale. La coalizione tra banche, fondi e società di gestione capitanata dall’ex governatore della Banca centrale inglese, Mark Carney, che rappresenta ormai il 40% degli asset finanziari globali con un patrimonio complessivo che vale 130mila miliardi di dollari, ha annunciato di essere pronta a mettere a disposizione ben 100mila miliardi per la transizione energetica. Cifre e promesse molto impegnative, che dovranno superare la prova dei fatti. Per il resto, rimane forte la probabilità che l’ultima chiamata di Glasgow per la lotta al climate change abbia un esito deludente. Ce lo perdoneranno i nostri nipoti?

www.francescodelzio.it @FFDelzio

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