Rieccolo, verrebbe da dire. Periodicamente torna all’attenzione del dibattito pubblico il tema della riduzione dell’orario di lavoro (a parità di salario). Un tema molto dibattuto anche in Europa, e non solo, in cui si sono tentate varie esperienze con alterne fortune, ma soprattutto vecchio di decine di anni, come presunta soluzione a due questioni: l’aumento della produttività e gli impatti delle nuove tecnologie. In soldoni e semplificando al massimo, il nostro sistema economico è in grado di produrre di più con meno forza lavoro. A questo punto come ridistribuiamo il lavoro? Distribuendo il lavoro che c’è su una platea più ampia di lavoratori riducendo l’orario di lavoro in modo generalizzato. I limiti di questa proposta sono almeno due: farlo a parità di salario e la sottovalutazione degli impatti organizzativi. In un periodo di crisi epocale come quello che stiamo vivendo l’effetto di questa trovata sulle imprese e sul lavoro sarebbero nefasti: aumento del costo del lavoro e pesante riorganizzazione aziendale.
Oramai il gioco è a chi la spara più forte. Mi permetto di derubricare la proposta della ministra Catalfo a boutade. Il governo sta predisponendo piani di sostegno ai lavoratori e alle imprese e dovrebbe concentrarsi di più su queste esigenze piuttosto che sulla riesumazione di vecchi arnesi. Non c’è la minima contezza di cosa significhi fare impresa, gestire un’organizzazione, pensare a processi produttivi e organizzativi. Vi è una visione ragionieristica dell’impresa, dove l’attività, la produttività, la competitività e la redditività si risolverebbero con il semplice 2+2 uguale 4. Ci vuole più competenza.
(*) Giuslavorista,
founder LabLaw
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