Mittal impone l’alt, poi ci ripensa: caos ex Ilva

Lo Stato non ha versato i 400 milioni per entrare in società e la multinazionale minaccia di tagliare la produzione. Il futuro è un rebus

Migration

di Achille Perego

Prima l’annuncio della fermata di impianti e investimenti, poi la marcia indietro dell’azienda. È la giornata di "caos senza precedenti", come l’hanno definita i sindacati, vissuta ieri alla ex Ilva di Taranto. E che lascia nell’incertezza il futuro dell’acciaieria e il piano di salvataggio pubblico. Secondo l’accordo firmato il 10 dicembre, lo Stato avrebbe dovuto acquisire, attraverso Invitalia, il 50% di AM InvestCo, la società di ArcelorMittal che gestisce il sito siderurgico.

E per questo avrebbe dovuto versare – ma non l’ha fatto – 400 milioni a febbraio. Ai quali aggiungere, entro maggio 2022 per acquistare i rami d’azienda ex Ilva, fino a 680 milioni per salire al 60%, mentre ArcelorMittal dovrebbe metterne 70 milioni per mantenere il 40%.

L’inadempienza nel rispetto dei tempi di Invitalia sarebbe riconducibile al cambio di governo, che avrebbe rallentato le procedure del decreto per trasferire i fondi dal Mef a Invitalia. E per questo ArcelorMittal aveva minacciato di ricorrere alla International chamber of commerce. In questo braccio di ferro si sarebbe inserita la decisione della multinazionale dell’acciaio, comunicata venerdì sera ai sindacati e poi annunciata ieri mattina, di ridurre i livelli di produzione (già ai minimi storici di 3,2 milioni di tonnellate nell’ultimo anno) bloccando il programmato riavvio dell’acciaieria 1, del treno nastri 2, del piano lamiere e del tubificio ErW. E quindi, aveva denunciato subito Rocco Palombella, segretario generale Uilm, con la messa in cassa di altre centinaia di lavoratori da aggiungere ai circa 3mila già in cig da oltre un anno e mezzo.

Ma l’azienda aveva anche prospettato il rallentamento temporaneo di investimenti e piani di risanamento ambientale fintanto che Invitalia non onorerà l’accordo. Di fronte al rischio dell’esplosione di una "bomba sociale ed occupazionale", ieri pomeriggio i sindacati hanno fatto sapere che dall’azienda è arrivato il contrordine con "i tre altiforni a pieno regime, la ripartenza del treno nastri 2 e della acciaieria 1 mentre si deciderà nei prossimi giorni per il piano lamiere 2 e il tubificio".

Uilm, Fiom e Fim, che domani chiederanno all’azienda un focus per rispettare gli impegni, stigmatizzano il "silenzio del governo" e invocano l’intervento di Draghi.

Per i sindacati "è chiara" in questa vicenda la responsabilità di Invitalia, ma non deve diventare una scusa per il comportamento "schizofrenico" di ArcelorMittal di far ricadere le colpe sui lavoratori. Il rischio è che il 2021 non diventi l’anno del rilancio ma quello della fine dell’Ilva. Anche perché resta aperto il fronte giudiziario.

Il 12 marzo il Consiglio di Stato ha accolto la richiesta di sospensiva della sentenza del Tar del 13 febbraio con la quale veniva disposta la fermata degli impianti dell’area a caldo perché ritenuti inquinanti. La sentenza di merito è attesa il 13 maggio e per evitare che nei Tribunali salti il piano di salvataggio dell’acciaieria, come aveva spiegato alla Camera il ministro dello Sviluppo economico Giancarlo Giorgetti, la politica deve nel frattempo trovare una soluzione.

è arrivato su WhatsApp

Per ricevere le notizie selezionate dalla redazione in modo semplice e sicuro