Giovedì 25 Aprile 2024

Martino Dondi, re delle televendite Quando il marketing era ruspante

L’imprenditore ferrarese dei salotti è morto a 93 anni. Celebri gli spot con Daniele Piombi testimonial. Negli anni Ottanta lanciò il tormentone "Din Don Dondi". Poi arrivarono Aiazzone, Grappeggia e gli altri

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di Viviana Ponchia

Nei week end degli anni ’80 a Vigarano Mainarda (Ferrara) approdavano in branchi i camper con dentro famiglie completamente soggiogate. "Din Don Dondi", un’esca irresistibile. Martino Dondi, morto martedì a 93 anni, aveva creato un impero nel settore dell’arredamento popolare invadendo con i suoi arredi strade, giornali e tivù. Stessa traiettoria di Giorgio Aiazzone, l’omologo romano Ugo Rossetti e Benito Jales Grappeggia: indimenticabili come i loro tormentoni, signori incontrastati di un’Italia bombardata dagli spot dei mobilifici. Ci mettevano il cognome. Proponevano senza vergogna arte povera, offerte incredibili, prezzi insuperabili.

La pubblicità era sciocchina e asfissiante ma oggi siamo qui a riconoscere la chiave per aprire cuori semplici, quel sapere fare comunicazione senza tanti complimenti. Dondi, con gli occhi gonfi di chi non dorme da settimane, aveva creato un colosso dal nulla lasciando il meno redditizio negozio di biciclette. Meglio gli elettrodomestici, poi i salotti. "Dondi: un divano tanti mondi". Daniele Piombi fu per lui quello che Guido Angeli fu per Aiazzone. "Nel 1888 il cuoio di caribù, morbido e robusto, veniva usato per le selle delle giubbe rosse che dopo cent’anni sono ancora nuove. Nel 1988 Dondi, primo in Europa, presenta il caribù: cuoio indistruttibile, doppio spessore". Il caribù. E per chi non avesse capito: "Dondi, mille salotti sempre pronti". Ci andava bene così. Erano gli anni spiritati di Wanna Marchi, dell’asmatico Roberto "Baffo" da Crema, delle batterie di pentole comprensive di cambio Shimano. Anni pop, poco eleganti, ottimisti.

Nonni e figli padani la domenica venivano deportati dentro la pancia di un altro mobilificio che proponeva "pagamenti in 36 mesi senza cambiali". "Vieni a piedi o in carrozzella ma vieni a Biella, vieni a Biella…". Aiazzone ci è rimasto appiccicato addosso come un biscotto Plasmon. Credevamo davvero che i suoi architetti ci avessero invitato a pranzo e che la consegna dei mobili fosse gratuita. Nella fascia medio-bassa del mercato il cliente si sentiva trattato da re e intanto il "re del mobile" inventava - anche lui dal nulla - un’azienda con 190 dipendenti e 30 miliardi di fatturato, di cui 5 destinati agli investimenti pubblicitari. A ciascuno il suo.

A Seregno, "meno male che c’è Grappeggia". Il cumenda Guido Nicheli della Milano da bere e del "See you later" diceva alla bionda di turno "Che bel divano, se fai la brava te lo compro". Benito Jales Grappeggia è morto cinque anni fa. Si era laureato in Lettere con una tesi su Alessandro Manzoni, non disdegnava il massiccio volantinaggio e la presenza martellante sulle reti private, anticipando Postalmarket con un catalogo venduto a 3 mila lire.

Al km 19 e 600 della Salaria si apriva lo Spazio utopico della Città del Mobile che ha segnato i romani dai 40 in su. Il baffuto Ugo Rossetti, l’Aiazzone che spadroneggiava fino a Rieti e alle terre ciociare, trasformò il suo mobilificio in una piccola Cinecittà. I dipendenti interpretavano miniserie con lo stesso finale: un divano regalato da Nonno Ugo. Si auto proclamava sindaco. Volle Alvaro Vitali per invitare i bambini a picchiare con un martello sulla macchinetta sputagiocattoli e anche Moana Pozzi, seminuda e ancora sconosciuta. Dicevano che fosse il proprietario di locali a luci rosse a Roma ma lui non se ne curava: tutta invidia.

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