IL SENSO è eloquente fin da titolo: "Il costo nascosto del lavoro domestico". E i numeri non sono da meno. Quasi 2,7 miliardi di mancato gettito tra evasione contributiva e fiscale e di questi la parte più rilevante è rappresentata dagli oneri contributivi evasi: circa 1,6 miliardi i contributi che le famiglie italiane avrebbero dovuto versare nel caso di un’assunzione regolare del collaboratore domestico. A questo si somma l’evasione fiscale derivante dalla mancata o parziale dichiarazione dei redditi dei lavoratori: secondo le ultime stime circa 1 miliardo di euro, corrispondente ad una base imponibile non dichiarata di circa 8,8 miliardi. A scattare la radiografia aggiornata del buco nero del lavoro domestico nel nostro Paese è lo studio, promosso da Assindatcolf (Associazione sindacale nazionale dei datori di lavoro domestico) e realizzato dalla Fondazione Studi Consulenti del Lavoro su dati Istat, Mise, Mef e su una ricerca condotta su oltre 1500 consulenti che assistono anche famiglie e collaboratori nella gestione del rapporto dello specifico rapporto di impiego. Ebbene, come emerge dalle cifre indicate, a perderci, da irregolarità e mancate emersioni dal nero, è per primo è lo Stato. Ma, a farne le spese sono anche le stesse famiglie.
Secondo le simulazioni di Fondazione Studi, a fronte di un risparmio minimo, tra il 6-8%, derivante dall’utilizzo di lavoro irregolare, i datori si accollano il rischio di arrivare a pagare il 30% in più in caso di controversia con il lavoratore. Un pericolo concreto considerando che dall’indagine condotta sui consulenti del lavoro emerge che ogni anno su 100 rapporti di lavoro, circa 2 danno origine a controversie che, nella maggior parte dei casi, nascono dal mancato riconoscimento delle ore lavorate, tipico di un lavoro parzialmente irregolare (68,4%) o dal lavoro irregolare tout court (45,2%). Con una spesa aggiuntiva annua per le famiglie intorno ai 55 milioni di euro. Secondo la rilevazione svolta a maggio 2022 sugli associati ad Assindatcolf, circa 2 famiglie su 10 (18,6%) hanno avuto discussioni e incomprensioni attinenti al rapporto di lavoro, che avrebbero portato nel 9,6% dei casi a una controversia o accordo economico con il lavoratore. Il 13,3% lamenta, invece, di essersi trovata nelle condizioni di non riuscire a regolarizzare completamente la situazione lavorativa del collaboratore per volontà di quest’ultimo.
"Da questa indagine – spiega Andrea Zini, presidente di Assindatcolf – viene fuori chiaramente come quello domestico sia un settore atipico, nel quale alle volte i lavoratori sono la causa, per loro espressa volontà, dell’irregolarità dei rapporti di lavoro. D’altro canto è, però, anche evidente la responsabilità dello Stato e lo vogliamo ribadire con forza: senza deducibilità totale del costo del lavoro non è possibile creare una contrapposizione di interessi tra le parti e, soprattutto, assicurare dignità al comparto. Da questo punto di vista occorre considerare che i redditi vengono tassati due volte. Un assurdo se si pensa che si tratta di redistribuzione di ricchezza non essendovi fine di lucro in una famiglia che assume un domestico". E sulla stessa linea si schierano i consulenti del lavoro. "L’esclusione delle famiglie datrici di lavoro dagli incentivi alle assunzioni – spiega Rosario De Luca, presidente della Fondazione Studi Consulenti del lavoro – non solo alimenta l’idea che quello domestico sia un lavoro diverso dagli altri, ma esclude dagli incentivi proprio un settore per cui questi potrebbero rappresentare un valido sostegno alla regolarizzazione".
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