Giovedì 18 Aprile 2024

Lavoro giovani, decreto Poletti: bilancio fallimentare. Ecco perché

Uno studio rivela che la flessibilità si è tradotta in precarietà cronica solo in parte corretta dal Jobs Act

Un giovane alla ricerca di lavoro

Un giovane alla ricerca di lavoro

Il problema ormai è arcinoto: l’Italia non è un Paese per giovani. Il lavoro è poco, i contratti precari e chi può scappa all’estero. Nel 2021, infatti, la disoccupazione nella fascia di età 15-24 anni si è attestata al 29,8%, la quarta più alta in Europa. Questo mentre nel 2020 i Neet - ovvero giovani tra i 15 e i 34 anni che non lavorano, non studiano e non frequentano corsi di formazione - superavano i 2 milioni, il 25,1% della popolazione in quel range d’età. Ma la situazione è piuttosto preoccupante anche per chi un lavoro ce l’ha. Le condizioni che vengono offerte, infatti, sono tutt’altro che irresistibili. "I giovani iniziano spesso la loro carriera con un contratto a tempo determinato che in moltissimi casi si rivela una trappola che li costringe a lunghi periodi di incertezza lavorativa, con ripercussioni importanti sulle decisioni di consumo e fertilità", si legge in uno studio pubblicato su LaVoce.info. Studio che analizza, in particolare, la flessibilizzazione dei contratti a termine introdotta con il decreto Poletti del 2014. Il bilancio del provvedimento, a otto anni di distanza, è piuttosto negativo.

Bilancio negativo

"L’aumento della flessibilità dei contratti a tempo determinato - scrivono gli autori dell’indagine - ha rallentato il processo di stabilizzazione dei nuovi entrati nel mercato del lavoro, con effetti negativi sulla loro progressione di carriera e i loro salari nel medio periodo". Al fine di incentivare il ricorso da parte delle imprese a rapporti di lavoro meno onerosi dal punto di vista delle garanzie e delle tutele, infatti, il decreto ha allentato i vincoli sui contratti a termine. Prima di tutto, è stato tolto l’obbligo di una causale. E poi è stato esteso il numero di proroghe, da 1 a 5, all’interno della durata massima di 36 mesi. Lo studio distingue i lavoratori in due gruppi e ne segue la carriera fino alla fine del 2015. Del primo fanno parte i giovani assunti in seguito a decreto Poletti (dal 21 marzo al 31 maggio 2014), del secondo invece quelli assunti in base alle regole precedenti (tra il 1° gennaio 2014 e il 21 marzo 2014). I due gruppi sono omogenei: l’unica cosa che li distingue è l’ingresso nel mercato a pochi mesi di distanza.

Jobs Act

A partire dal 2015, con l’introduzione attraverso il Jobs Act degli incentivi alla trasformazione dei contratti a termine in contratti a tempo indeterminato (decontribuzione totale per tre anni), «la differenza nella probabilità di stabilizzazione tra i due gruppi cresce fino al 12 per cento". Insomma, essere stati assunti con le regole stabilite dal decreto Poletti "si è rivelato molto svantaggioso per i giovani lavoratori". Ovviamente, l’effetto è ancora più forte per le donne e per chi ha un basso grado di istruzione. Ma anche per i lavoratori assunti da imprese poco produttive, localizzate soprattutto nel Centro e nel Sud Italia. Per gli economisti de LaVoce, "il risultato riflette un utilizzo strategico da parte di imprese, spesso di sussistenza, che tendono a servirsi dei contratti a tempo determinato come mero elemento per ridurre i costi, più che come strumento di screening per l’ingresso dei nuovi lavoratori". Se si allarga l’orizzonte temporale, poi, emerge che maggiori sono le difficoltà ad accedere a un rapporto di lavoro a tempo indeterminato, più bassi sono i salari. Infatti, le minori probabilità di stabilizzazione dei giovani assunti con un "contratto Poletti" si sono tradotte in retribuzioni più basse del 30% dopo un anno e di oltre il 25% dopo due.