La frontiera dei nuovi diritti Garanzie e sicurezza sociale: la sfida dei lavoratori digitali

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Luigi Manfredi

MILANO

NON SOLO Foodora. Non solo raider. Il fenomeno del lavoro sulle piattaforme digitali comincia ad avere numeri importanti anche in Italia e impone nuove sfide al diritto del lavoro sopratutto, ma non solo, sotto il profilo delle tutele dei lavoratori. Nel mondo – sottolinea l’avvocato Roberto Podda, partner responsabile del Dipartimento Labor & Employment dell’ufficio di Milano di K&L Gates, una delle principali law firm internazionali – i lavoratori che operano su piattaforme digitali sono circa 10 milioni, negli Stati Uniti già 600mila. Anche in Italia il fenomeno si è fatto parecchio consistente. Solo nel mondo dei raider parliamo di 10mila persone (Foodora, Deliveroo e altri operatori minori): il 78% under 30, la metà studenti, veri lavoratori cioè della ‘gig economy’, coloro i quali cercano un lavoretto temporaneo in attesa di qualcosa di meglio o in attesa di completare gli studi. Ma il settore è molto più ampio: in Italia oggi i lavoratori su piattaforma digitale sono circa 250mila, la maggior parte fra i 30 e i 50 anni di età.

Il quadro è molto diverso da quello che si tende ad identificare con i rider. Qual è dunque la prima esigenza?

E’ urgente trovare formule di tutela specialmente con riferimento alla sicurezza sociale. Non sono lavoratori come i rider che utilizzano questa forma di lavoro come situazione ponte, qui si parla anche di lavoratori che hanno alta competenza tecnica, che propongono la propria alta professionalità.

Quali sono le caratteristiche di questo tipo di lavoro?

Non ci sono vincoli di orario né coordinamento con l’organizzazione del committente. Non è un ‘job for life’, un lavoro per la vita. Emergono però aspetti rilevanti: la copertura di malattie, maternità, infortuni, invalidità e vecchiaia.

Vantaggi per lavoratori e imprese?

Per entrambi viene meno l’effetto di intermediazione. I lavoratori hanno uno strumento attraverso il quale offrire in tempo reale la propria prestazione, percepire rapidamente un reddito e farsi conoscere. Le imprese possono reperire immediatamente i lavoratori di cui hanno bisogno abbassando i costi.

Se queste sono le premesse, che evoluzione immagina?

Il primo tema è creare un sistema di piattaforme digitali effettivamente democratico in cui la piattaforma sia uno strumento neutro che consenta al lavoratore di offrire la propria competenza senza avere vantaggi competitivi indebiti rispetto agli altri lavoratori. In Italia siamo ancora indietro.

Poi?

Il tramonto dei tradizionali istituti di protezione del diritto del lavoro. Vorrei soffermarmi sul caso delle ‘umbrella companies’ che, nate come contractor per professionisti e free lance con la funzione di interposizione e di fornire servizi (contabilità, versamento di imposte, contributi e del compenso netto), passano nel tempo a svolgere una funzione mutualistica, restituendo omogeneità e continuità a un tipo di lavoro parcellizzato. Ma non basta, perché nell’esperienza americana si sono evolute arrivando a svolgere funzioni tipiche assolte dai sindacati. Per esempio creando fondi di ammortizzazione sociale, offrendo un sostegno al reddito quando non è possibile per i lavoratori svolgere la prestazione. O addirittura stipulando contratti collettivi per arrivare un giorno magari alla contribuzione sociale. Se questo processo venisse guidato in modo giusto, si raggiungerebbero due obiettivi: colmare le lacune nelle tutele e ridurre il cuneo fiscale.

Ok le tutele dei lavoratori. Basta questo?

E’ necessaria una visione complessiva. In Italia la maggior parte delle società sono ancora in fase di startup e hanno dei margini ridottissimi. Anche di questo bisogna tenere conto. Mi spiego: se un giorno tutti questi lavoratori dovessero essere riconosciuti come lavoratori subordinati con lo stesso livello di ‘costo azienda’ la maggior parte delle società smetterebbero di investire in Italia. Ecco perché il legislatore prima di intervenire dovrebbe ascoltare le parti sociali.

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