L’Istat: metà delle aziende a rischio

Il 45% ha problemi "strutturali", solo l’11% è solido. Un’impresa su tre, soprattutto al Sud, pensa di non farcela

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di Claudia Marin

La radiografia dell’Istat sulla tenuta del sistema imprenditoriale in piena pandemia è da far tremare le vene ai polsi: poco meno della metà delle imprese italiane sono "strutturalmente a rischio", solo l’11% risulta solido, e una su tre pensa di non farcela a superare la grave emergenza dovuta al Coronavirus. Più in pericolo di tutte sono le attività del turismo e della ristorazione, e quelle che operano nel Centro-Sud, devastate da uno tsunami senza precedenti. Un quadro terremotato dei settori produttivi, che spiega la rabbia e la protesta delle categorie più colpite (ambulanti, ristoratori, commercianti in prima fila) che anche ieri hanno fatto sentire il loro grido di aiuto dalle città della Penisola. Mentre, non a caso, nella Capitale, il governo punta a dare un colpo di acceleratore sulle riaperture (da maggio, ma in parte anche dal 20 aprile, almeno negli auspici del ministro Maria Stella Gelmini), sul Recovery Plan (oggi in programma un summit tra i governatori e Mario Draghi) e, soprattutto, sul decreto Sostegni Due, che sarà finanziato da un nuovo scostamento da 30 miliardi di euro, come ha confermato ieri dal Ministro dell’Economia, Daniele Franco. Anche perché si tratta di scongiurare – spiega a sua volta il governatore di Bankitalia, Ignazio Visco – "rischi significativi" che deriverebbero da un ritiro prematuro degli aiuti alle economie.

Ma torniamo alla "mappa della solidità" (come, per contrasto, la definiscono i ricercatori dell’Istat) delle imprese. Il rapporto indica che "circa il 45% di esse è strutturalmente a rischio: esposte a una crisi esogena, subirebbero conseguenze tali da metterne a repentaglio l’operatività" soprattutto nei settori a basso contenuto tecnologico e di conoscenza. All’opposto, "solo l’11% risulta solido, ma spiega quasi la metà dell’occupazione e oltre due terzi del valore aggiunto complessivi". Circa il 30% delle imprese è rimasto "spiazzato" dalla pandemia e a novembre 2020 "quasi un terzo delle stesse considerava a rischio la propria sopravvivenza, oltre il 60% prevedeva ricavi in diminuzione e solo una su cinque riteneva di non avere subito conseguenze o di aver tratto beneficio dalla crisi".

I provvedimenti di lockdown introdotti in Italia e all’estero, si legge nel rapporto, hanno svolto "un ruolo non marginale nella contrazione del valore aggiunto dei settori italiani". Gli effetti economici più negativi riguardano le attività legate al turismo. La quota di chi segnala seri rischi di chiusura è elevata nelle attività delle agenzie di viaggio (oltre 73%), in quelle artistiche e di intrattenimento (oltre 60%), nell’assistenza sociale non residenziale (circa 60%), nel trasporto aereo (59%), nella ristorazione (55%). Nel comparto industriale risaltano le difficoltà della filiera della moda: abbigliamento (oltre 50%), pelli (44%), tessile (35%). La crisi ha colpito soprattutto le imprese di piccola dimensione, attraverso un crollo della domanda interna e della liquidità, e ha "prodotto divisioni sul territorio". Delle sei regioni il cui tessuto produttivo risulta ad alto rischio", cinque appartengono al Mezzogiorno, (Abruzzo, Basilicata, Calabria, Campania e Sardegna) e una al Centro (Umbria) mentre le sei a rischio basso sono tutte nell’Italia settentrionale (Piemonte, Liguria, Lombardia, Emilia-Romagna, Friuli-Venezia Giulia, Provincia autonoma di Trento).

Certo è che dietro i numeri le categorie ribollono. E per oggi sono annunciate nuove iniziative: a Roma in piazza del Popolo si sono dati appuntamento alle 11 i titolari di partite Iva e ristoratori da tutta Italia. E se tutti stigmatizzano le violenze, è ugualmente diffusa la convinzione che occorra fare in fretta per evitare il peggio.

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